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Will Hermes: Lou Reed Re Di New York

Dalla rubrica Chez Mimich

Cominciamo da un dubbio: le 771 pagine del possente libro di Wille Hermes, ci restituiscono un Lou Reed visto al microscopio. Un lavoro immane di ricostruzione, quasi maniacale, della vita di Reed, della sua sfera privata, dei rapporti con i Velvet Undergound e con Andy Warhol che può lasciare anche qualche dubbio. E’ pur vero che Will Hermes, collaboratore della rivista “Rolling Stones” e del “New York Times”, ha potuto lavorare sui materiali che la famiglia di Reed ha reso disponibili e che sono attualmente conservati presso la New York Public Library, ma nonostante questo è difficile credere ad una ricostruzione fedele al reale di dialoghi, confessioni, serate, atteggiamenti, persino rapporti intimi, come se la vita di Lou Reed si fosse svolta in una sorta di faraonico “Grande Fratello” che copra quasi settant’anni della sua vita.

Al di là di questa considerazione preliminare e del tutto personale, il libro di Hermes è oltremodo interessante e rivelatore di fatti e circostanze, atteggiamenti e convinzioni di questo gigante della controcultura Underground e della sua musica. Molto complesso anche sintetizzare in un post (di lunghezza accettabile), il succo dell’intero lavoro di Hermes. Certamente, dalla lettura, emerge un affascinante parallelismo tra la convulsa e maledetta vita di Lou Reed e il profilo di una città, New York City, che hanno riempito la scena della musica d’avanguardia, dell’arte, del cinema e del costume dalla metà degli anni Sessanta fino al Duemila e oltre. Del resto anche il titolo allude ad un regnante e al suo regno in maniera piuttosto inequivocabile. Ma ci sono anche altre storie che scorrono come fiumi carsici in questo volume e nella vita di Lou Reed e molti artisti della sua generazione: la storia della dipendenza dalla droghe e qualche volte dall’alcol di Reed e di moltissimi musicisti e addetti ai lavori della sua generazione e le rivendicazioni nascenti della “Queer Culture” che si affacciava massicciamente in quegli anni, soprattutto negli ambienti legati all’arte e alla musica. Lou Reed incontrò gli stupefacenti molto presto e non se ne liberò mai e Will Hermnes ne rende conto puntualmente, anzi con una precisione quasi maniacale a partire dagli anni della Syracuse University, dove Reed studiava giornalismo e dove ebbe il fondamentale incontro con lo scrittore Delmore Scwartz, anch’egli dipendente dall’alcol. Gli anni dell’università videro anche la nascita del suo primo gruppo musicale, “The Shades”; il secondo gruppo non ha bisogno di nessuna presentazione perchè si chiamava, come tutti sanno, “Velvet Undergorund”, gruppo che paradossalmente, come sottolinea Hermes, non aveva alcuna possibilità di avere un pubblico di massa, benché figli della propria epoca e facenti parte di un panorama musicale dominato dal rock e dal pop in tutte le loro multiformi sfaccettature, perché erano troppo sofisticati per piacere a tutti, troppo cerebrali, troppo incuranti del pubblico. Un gruppo che già nel 1966 aveva una batterista donna, Maureen Tucker, non poteva andare lontano nel mondo maschilista della musica. Il libro indaga e descrive fin troppo dettagliatamente, come si diceva i rapporti di Reed con Sterling Morrison, Nico, John Cale. Una ricostruzione indubbiamente affascinante anche senza il bisogno di indagare sulla veridicità di ogni singola sfuriata di Reed o su ogni colossale “sballo” del suo fondatore. Will Hermes ricostruisce anche tutte le dinamiche che portarono Lou Reed nell’orbita di Andy Warhol del loro convulso rapporto. Lou Reed ebbe con lui e con la Factory un rapporto di interscambio profondo e complesso che lo portò anche ad allontanare Warhol dal gruppo.

I Velvet Underground devono a Reed quasi tutta la produzione musicale di brani che entrarono nella storia del rock del pop e del punk da una, per così dire, entrata di servizio : mai troppo famosi, al di fuori di quell’universo della cultura underground che era New York, ma che sono passate di diritto nella storia della musica e della poesia: Sunday Morning, I’ll Be Your Mirror, Venus in Furs, I’m Waiting for the Man, The Black Angel’s Death Song, All Tomorrow’s Parties, e sua maestà “Walk in the Wilde Side” che divenne il manifesto di una stagione breve ma intensa. Mi piace a questo proposito ricordare anche le pagine di dettagliata analisi dei testi di Reed, ma anche del suo voluto o non voluto pressapochismo nella tecnica musicale. Così come degne di menzione sono le parti del volume dedicate alla tarda produzione di Reed, come per esempio quel gioiello che è “Songs for Drella”, scritto con John Cale, in ricordo di Andy Warhol. Lou Reed non fu mai un personaggio facile, né per la sua poetica, né per la sua “vita spericolata” (questa sì, non quella dei suoi numerosi emulatori farlocchi). In particolare, la sua multiforme identità sessuale lo portò ad avere complesse relazioni sessual-sentimentali con molti dei protagonisti della scena underground (e queer) newyorkese per approdare poi, alla fine della sua vita, ad un rapporto etero (ma non scevro da tentazoni e sperimentazioni) con un altro mostro sacro dell’avanguardia musicale, quella Laurie Anderson che fu anch’essa una musa dell’avanguardia musicale. Nei primi anni Duemila Reed collaborò intensamente con un altro grande dell’avanguardia artistica statunitense, il regista teatrale Bob Wilson che dopo il suo “Einstein on the Beach” del 1976, lavorò con musicisti come Philip Glass, Tom Waits e il guru della musica elettronica Underground newyorkese La Monte Young. Con Lou Reed, Wilson realizzò l’incredibile opera “Time Rocker”, “The Raven, “POEtry” sui testi di Edgar Allan Poe, figura che affascinava non poco Reed, ed altri lavori ancora. Così come non poteva mancare il racconto della contrastata amicizia di Lou Reed con David Bowie. Definire colossale il lavoro di Will Hermes sembra addirittura necessario, pur con tutte le riserve del caso.

Libro intenso, ricco di particolari, analitico e non celebrativo, magari in qualche parte discutibile, ma comunque un magnifico lavoro.

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Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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