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Thao Nguyen Phan, Reincarnations of shadows

Ormai non è più una novità che la natura e l'ambiente siano diventati soggetti artistici molto frequentati. Si dirà che la natura è sempre stata un soggetto privilegiato dell'arte, e ciò è indubitabilmente vero, ma non nello stesso modo di oggi

Ormai non è più una novità che la natura e l’ambiente siano diventati soggetti artistici molto frequentati. Si dirà che la natura è sempre stata un soggetto privilegiato dell’arte, e ciò è indubitabilmente vero, ma non nello stesso modo di oggi. Oggi più che la natura è l’ambiente ad essere soggetto delle più svariate meditazioni artistiche. La mostra dello “Shed”al Pirelli Hangar Bicocca di Milano è l’ennesima grande esposizione, tra quelle visitate negli ultimi tre-quattro anni tra Milano, Parigi e Londra, ad avere come soggetto l’ambiente, lo sfruttamento delle risorse e la crisi alimentare (e conseguentemente le migrazioni e anche le guerre).

Thao Nguyen Phan è un’artista vietnamita (classe 1987) che narra, attraverso la sua multiforme produzione artistica, ciò che della storia ufficiale del Vientnam non è mai stato scritto (verrebbe da aggiungere, come della storia ufficiale di molti altri paesi). Scultura, pittura, disegno e video installazioni costituiscono la materia fluida attraverso la quale Thao Nguyen Phan si esprime. Non bisogna dimenticare che l’artista vientemita si è specializzata, alla Ho Chi Min City University of Fine Arts, in “lacca” tecnica artistico-artigianale molto comune in quel paese. Nei successivi studi a Chicago entra poi in contatto col cinema indipendente e sperimentale e collabora con un mostro sacro della video-art, quella Joan Jonas alla quale, giusto qualche anno fa, il Pirelli Hangar Bicocca dedicò una grandiosa restrospettiva. Del resto è la stessa Phan a confessare: “Aspiro a costruire un corpus di opere interconnesse tra loro, la cui diversità di stili e materiali possa coesistere in una dimensione onirica di democratica utopia…”

La mostra dell’Hangar prende il titolo dal video del 2023 “Reincarnations in Shadow”, ispirato all’opera della scultrice modernista Dien Phong Thi ed è, in fondo, una meditazione sulla reincarnazione. Questa idea della reincarnazione ricorre in molte altre opere esposte ed è un’idea tutt’uno con quella di madre-terra, come condizione a priori di ogni possibile ritorno alla vita. Quattro grandi dipinti accolgono il visitatore: si tratta di forme geometriche a tecniche miste che richiamano i cosiddetti “Brise-soleil”, ovvero elementi di cemento traforato presenti in molti edifici del Sud-Est asiatico, che hanno funzione di elemento ombreggiante degli stessi edifici. Ma quella di Phen, è anche una citazione coltissima, per dimensioni e proprozioni esatte, in omaggio a Le Corbusier e al suo “Modulor”. Due di questi pannelli sono stati appositamente creati per l’Hangar Bicocca. Il secondo suggestivo video della mostra è appunto “First Rain, Brise Soleil” il cui protagonista è il maestoso e gigantesco fiume Mekong, fonte di vita e grande via di comunicazione. Sul fiume viaggia, sia metaforicamente sia fisicamente, un operaio edile dedito appunto alla costruzione di questi grandi pannelli ombreggianti. Le vicende quotidiane dell’operaio si intrecciano con quelle di un’antica leggenda d’amore e nel fluire delle immagini fanno penetrare lo spettatore in ambientazioni oniriche, ma realmente ispirate ai grandi riti collettivi di quella terra. Ma è proprio il terzo poetico video, ovvero “Becoming Alluvium”, ad entrare nel cuore della tematica ambientale, con l’esame del Mekong che, come centinaia di fiumi in tutto il pianeta, è stato profondamente modificato nel suo primordiale habitat dallo scellerato intervento del’uomo. In particolare il video mette al centro dell’attenzione il collasso di una imponente diga sul fiume che provocò una totale devastazione delle terra a valle. E in particolare sui danni dovuti alla antropizzazione della foresta pluviale, pongono l’attenzione i bellissimi dipinti double-face appesi ad altezze diverse, dipinti in lacca su legno e seta, della serie “Perpetual Brightness”. Se c’è qualcosa di fondamentale e fondante nell’arte contemporanea, questa è “l’intenzionalità”: l’arte, un po’ come diceva Roland Barthes per la moda, più che produrre oggetti, produce “segni”, che sono spesso più intenzionali della “cose” in sé. Questo è facilmente verificabile in un’opera come “No Jute Cloth for the Bones”, una fitta foresta di fronde di juta essiccata appese al soffitto e che rimanda alle parole d’ordine dei giapponesi durante l’occupazione del Vietnam, nel corso della Seconda Guerra Mondiale: “Estirpate il riso, coltivate la juta” costrizione che fece precipitare il paese in una catastrofica carestia.

Tra le tante opere significative della mostra la serie di acquarelli per il volume “Voyages de Rhodes”, il missionario che contribuiì alla translitterazione della lingua locale in alfabeto latino e la suggestiva e scenografica “Man Looking Towards Darkness”, tenda scura decorata con piccole figure in oro viste di spalle che compiono normali gesti quotidiani. Le fibre del ricamo sono tradizionalmente ricavate solo da materiali organici, lungamente eleborati. Il tema è lo strettissimo legame tra mitologia locale ed ecologia. Mostra nella mostra è la sezione che Thao Nguyen Phan dedica alle sculture moderniste di Diem Phung Thi, una vera scoperta nella scoperta, una sculturice dal gusto raffinatissimo che utilizza materiali come la terracotta, la pietra, il metallo e la lacca.

Si tratta di piccole sculture che rappresentano sette moduli che, articolati tra loro, mettono in moto una sorta di alfabeto immaginario ed immaginativo che, come scrisse il critico Raymond Cogniat “… Ogni oggetto creato da questa artista è libero come una parola, ma come la parola viene arricchito quando partecipa a una frase per divenire poema o preghiera …”.

Una mostra che nella sua intima e discreta poesia lascia incantati per la delicatezza delle opere esposte, ma anche per la denuncia poco chiassosa ma chiara e senza compromessi dell’atteggiamento di indifferrenza dell’uomo verso un mondo ancestrale che se non è andata già perduto rischia di esserlo in un prossimo futuro. Da visitare con la predisposizione d’animo alla scoperta di un’idea d’arte diversa e altra rispetto al caravanserraglio dell’universo visivo del mondo occidentale.

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Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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