L’arrivo dell’ibis sacro a Novara ha diviso l’opinione pubblica. C’è chi parla di “invasione”, chi invita a non allarmarsi e a “cambiare sguardo”, accogliendo questa specie come parte di una natura che cambia. Ma oltre alle impressioni, ci sono dati scientifici precisi che raccontano un’altra storia. E che spiegano perché l’ibis sacro rappresenti, a tutti gli effetti, una minaccia alla biodiversità locale.
«Una specie alloctona, una volta introdotta, può creare squilibri significativi, specialmente se diventa dominante o se si sovrappone a nicchie di specie vulnerabili -. spiega Enrico Caprio, associato del dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino -. È uno dei principi fondanti della conservazione della biodiversità: quando una specie alloctona si insedia e prolifera, tende a modificare gli equilibri ecologici. Non parliamo più di presenze occasionali, ma di un fenomeno da affrontare con strumenti concreti».
Originario dell’Africa subsahariana, l’ibis sacro è arrivato in Europa attraverso gli zoo e i parchi faunistici. In Piemonte è presente dagli anni ’80, ma negli ultimi anni le popolazioni sono cresciute esponenzialmente, fino ad arrivare a migliaia di individui. «Oggi colonizza le stesse garzaie in cui nidificano specie autoctone e protette di aironi – aggiunge Irene Pellegrino, associata del dipartimento per lo Sviluppo Sostenibile e la Transizione Ecologica dell’Università del Piemonte Orientale -. E non solo: è un predatore cosiddetto generalista. Si nutre di invertebrati (tra cui insetti e lombrichi) ma anche di uova, pulli, anfibi, a volte anche piccoli rettili. Riduce il successo riproduttivo delle altre specie, competendo per lo spazio in cui nidificare , crea una pressione diretta su habitat delicati».
Oltre all’impatto sulla fauna, l’ibis sacro ha dimostrato di generare problemi di carattere sanitario e anche all’agricoltura. I grandi raggruppamenti notturni possono diventare luoghi di accumulo di guano per via delle deiezioni, e in alcune zone sono stati documentati danni alle risaie, dove questi uccelli con il calpestio e il loro becco lungo e sottile possono causare lo sradicamento delle piantine di riso.
Tutto questo è noto e documentato da anni e dal 2024, è attivo un gruppo di lavoro interdisciplinare composto da due università, ISPRA, Ente di gestione delle aree protette del Po piemontese e amministrazioni locali che monitora costantemente le colonie e le loro interazioni con l’ambiente e ha avviato gli interventi di contenimento in Provincia di Vercelli . «Non si tratta di sensazioni – sottolinea Caprio – ma di dati raccolti sul campo: sappiamo dove nidificano, quante uova depongono, che impatti hanno. E sappiamo che vanno contenuti».
Ma qui entra in gioco un altro problema: la frammentazione della governance ambientale. In teoria, un quadro normativo esiste: l’Unione Europea ha classificato l’ibis sacro come specie aliena invasiva di “rilevanza unionale”. L’Italia ha recepito la normativa e approvato un Piano nazionale di gestione, redatto da ISPRA. Le Regioni e le Province dovrebbero ora adattarlo al proprio contesto locale, dotandosi di strumenti operativi per intervenire. In pratica, però, la situazione è disomogenea. In Piemonte la materia è delegata alle province e questo genera una frammentazione che spesso non aiuta il contenimento del fenomeno.
Il Parco del Po piemontese, che gestisce aree protette anche nel vercellese, ad esempio si è già dotato di un piano di gestione e ha avviato misure di contenimento, tra cui il trattamento delle uova con olio vegetale. A partire da quest’anno, in casi selezionati, è stato autorizzato anche l’abbattimento di alcuni esemplari da parte di personale qualificato. A Novara, invece, la Provincia non ha ancora adottato un piano, anche se in questi giorni si sta iniziando ad affrontare la questione. Nel frattempo, però, la popolazione di ibis cresce, e gli impatti pure.
«Non stiamo parlando di un uccello in più – ribadisce Pellegrino -. Stiamo parlando di una specie invasiva, dei danni che può arrecare alla biodiversità e del fatto che nel nostro quadrante di riferimento si contano all’incirca 17 mila individui. Gli interventi di contenimento non sono una scelta ideologica, ma una necessità basata sui dati scientifici».
E per chi vede nell’ibis sacro solo un “simbolo della natura che si adatta”, Pellegrino risponde: «È la natura, sì. Ma una natura alterata. Quello che stiamo facendo è cercare di proteggere ciò che resta della biodiversità nativa attraverso la conoscenza dei dati e dei processi ecologici. La speranza è che in futuro si riesca a prevenire o a contrastare l’arrivo di specie alloctone prima che possano diventare invasive e così diffuse».