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Performing Pac: Dance me to the end of love

“Performing Pac” è un appuntamento fisso del Padiglione di Arte Contemporanea di Milano e l’edizione speciale di quest’anno non poteva che essere dedicata alla memoria, cominciando da quella relativamente recente, proprio quella che coinvolge direttamente il PAC ,in considerazione del trentennale dell’attentato del 1993 che distrusse la prestigiosa sede espositiva ed istituzione milanese. Sono Marco Bova e Simona Zecchi a ricostruire in maniera dettagliata attraverso una timeline di piccoli ritagli cronologici (dal 1992), la situazione politica nazionale ed internazionale, piccole e grandi notizie di quel periodo. Ma la mostra è anche altro, inglobando molti materiali dell’archivio del Pac, a partire dalla mostra di Christian Boltanski del 2005 incentrata sul concetto del fluire del tempo. E al concetto di tempo e al concetto di ricordo fa riferimento l’allusivo titolo, ovvero “Dance Me to the End of Love”, da un verso di una celebre canzone di Leonard Cohen del 1984, nata dai racconti dei sopravvissuti ai campi di sterminio. Poche e selezionate le opere esposte con grande predominanza di video (sembrano i video e le video installazioni la strada intrapresa dal Pac). All’ingresso il visitatore è accolto dal magnifico video su tre schermi di Yael Bartana intitolato “Balka Germania” del 2021.

Il titolo significa in ebraico “Regina Germania”, nel video rappresentata da una immaginaria regina a dorso di un asino (il Messia per gli ebrei arriva a dorso di asino). Nel video la donna di bianco vestita e con caratteri somatici decisamente ariani, attraversa una Berlino infestata dai lugubri fantasmi del nazismo, evocati e non rappresentati esplicitamente in una commistione sincronica tra passato e presente: berlinesi di oggi e di ieri che grazie a questo salvifico passaggio di Balka Germania sembrano liberarsi delle colpe, ma non dei sensi di colpa. Un film grandioso per dimensione e profondità del tema. Molto singolare il video di Clemencia Echeverri con due proiezioni sincroniche di un fiume notturno che vede crescere le proprie acque e le urla di due persone non comprese nell’inquadratura che chiamano nomi senza avere alcuna risposta, una sorta di ternodia greca ove il defunto non è presente e, forse, non si tratta solo della vittima di un naufragio, ma di una vittima simbolica di dittature, forse guerre, certamente indifferenza.

Il magnifico video di Douglas Gordon riprende l’esecuzione della Sinfonia Concertante in mi bemolle maggiore K.364 di Mozart, da parte di Avril Levitan e Roi Shiloac. I due musicisti ripercorrono al contrario la strada da Berlino a Varsavia che i loro genitori percorsero fuggendo nel 1939 dalla Polonia occupata. Nella prima parte del video, la foresta vista dal treno e il racconto della fuga con la tappa a Poznan con le immagini quasi astratte della antica sinagoga; nella seconda parte il concerto. Accattivante il gioco degli specchi che dànno conto della labirintica complessità della situazione.

Nello spazio-giardino del padiglione, quello solitamente dedicato alle installazioni più ambientali ecco l’installazione-performance di Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini. Nella versione perfomance i due artisti presenti siedono a due piccoli scrittoi separati da un muro, mentre nell’installazione sugli scrittoi vengono proiettate le parole delle lettere di uno scambio epistolare tra il nonno deportato in Germania e la nonna a casa con i figli. Il pavimento è ricoperto da riccioli di matita temperata: sul tavolino sono proiettate le parole scritte nelle lettere, in sottofondo le parole di Hitler, Mussolini e Pio X e nel video immagini storiche dell’epoca. Si tratta dell’installazione “Così lontano, così vicino” del 2003 riallestita per la mostra del PAC. Forse non originalissima, ma comunque piuttosto suggestiva. Unica opera oggettuale presente che fa diretto riferimento all’attentato al Pac ecco “Untitled”, bouquet di fazzoletti annodati con una calza femminile che alludono alle lacrime versate dalla città, ma forse anche all’oggetto sopravvissuto e salvato e “Souvenir di Milano”, sorte di ready-made della macchinetta fotografica per bambini da cui ammirare panorami della città. Forse l’opera più criptica, ma anche la più ironica e dolente.

Tornando alla sezione video al piano superiore del padiglione, lascia incantati la bellezza cruda ed essenziale del video di Maja Bajevic “Green, Green, Grass of Home”. L’artista camminando su un prato ripercorre i percorsi interni della casa dei nonni che sorgeva proprio in quel luogo prima della battaglia di Sarajevo, video dolente e che non necessità di nessuna spiegazione ma solo della condivisione di un dolore immenso.

Sempre di memoria e dolore si tratta in “La Storia, in generale” di Giulio Squillacciotti, nato da una residenza a Torino durante la quale l’artista ha studiato tre archivi di arte irregolare (ma esiste un’arte regolare?), in ambito psichiatrico: il Regio Manicomio di Collegno, il Museo Antropologico di Torino e l’archivio della città “Mai visti e altre storie”. Si tratta di un immenso patrimonio di creazioni di quella che si definiva “devianza” e che è rivelatrice di una straordinaria potenza creativa, ma che “noi umani” ci rifiutiamo spesso di considerare.

La mostra, per chi non volesse distrarsi troppo da grigliate estive, bagni al mare e salutari passeggiate in montagna, è aperta comunque fino al 10 settembre prossimo, e costituisce comunque una bella passeggiata spirituale per la mente e per l’anima. Sempre che qualcuno fosse ancora interessato a coltivarne lo spirito.

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Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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