L’uomo non è mai stato capace di fermarsi in tempo per evitare la guerra, ma non ha mai neanche smesso, nei peggiori momenti storici, di scrivere poesie.
Ha senso scrivere poesie per dire come ci si sente, quando intorno c’è devastazione? Ha ancora senso raccontare il dolore per indicare una forma di resistenza e di salvezza? Ha senso mettere in versi la luce di un arcobaleno, in un cielo pieno di droni, che cade su tetti sventrati? In arabo ‘baīt’ come in ebraico ‘bayt’ significa allo stesso tempo il verso poetico e la casa, e indicano di questi tempi una mancanza.
Chi, in scenari di guerra, trova la forza di prendere una penna e scrivere versi merita tutta la nostra attenzione.
Cosa significa essere un poeta in tempi di guerra?
Significa chiedere perdono
scusarsi profondamente
con gli alberi bruciati
con gli uccelli senza nido
con le case demolite
con le lunghe crepe lungo le strade
con i bambini pallidi prima e dopo la morte
con i volti di ogni madre triste o assassinata.
Cosa significa essere al sicuro in tempi di guerra?
Significa vergognarsi
del proprio sorriso
di stare al caldo
dei propri vestiti puliti
delle tue ore di ozio
degli sbadigli
di una tazza di caffè
di dormire sonni tranquilli
di avere vivi i propri cari
di avere lo stomaco pieno
di avere acqua disponibile
di avere acqua pulita
di poter fare la doccia
E di essere vivo, per puro caso!
Oh Dio,
non voglio essere un poeta in tempi di guerra.
Hend Joudah. In Il loro grido è la mia voce. Fazi Editore, 2025