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Se è vero come diceva Ungaretti, uomo di pena, che il dolore è per il poeta un’occasione privilegiata di conoscenza di sé e di riflessione, le dolorose esperienze e i traumi vissuti da Amelia Rosselli sono il nodo pulsante della sua scrittura, fatta di una costante esplorazione dell’inconscio Dalla nostra rubrica letteraria

Se è vero come diceva Ungaretti, uomo di pena, che il dolore è per il poeta un’occasione privilegiata di conoscenza di sé e di riflessione, le dolorose esperienze e i traumi vissuti da Amelia Rosselli sono il nodo pulsante della sua scrittura, fatta di una costante esplorazione dell’inconscio.

Aveva solo sette anni quando il padre Carlo e lo zio Nello, esuli antifascisti, furono uccisi in un attentato in Francia; poi la sua vita è stata all’insegna dell’instabilità e della sofferenza psichica, costellata da diversi ricoveri e tentativi terapeutici.

E se è pur vero che in ogni linguaggio, specie in quello poetico, è ravvisabile una natura metrica, la poesia di Amelia Rosselli è un fenomeno unico nella lirica italiana del ‘900, per la sua indiscussa originalità linguistica e prosodica, dovuta al plurilinguismo (parlava francese, inglese e italiano) e alla sua formazione musicale.

I suoi testi assumono spesso le caratteristiche di una partitura musicale che riflette, con ripetizioni, variazioni ed errori, la lotta tra le spinte caotiche dell’inconscio e il tentativo di arginarle: uno scontro tra forze oscure e razionalità, anche questa con i suoi limiti e insidie. E non ricompone il dissidio: “Io non so se rimo per incanto o per travagliata / pena. Io non so se rimo per incanto o per ragione”.

“La mente che si frena e si determina è un bel gioco. / La cosmopolita saggezza è forse la migliore delle / nostre canaste. La mente che si determina è forse / un gioco fasullo? Convinta del contrario ponderavo / le crisi interne del paese e osservavo affluire nel / gran fiume della città una scatola di sardine”.

Una dichiarazione di fiducia nella ragione, vista come un’attività positiva che frena e argina il caos dei pensieri, presentata come un gioco e associata ad un sapere profondo e ad una solida formazione cosmopolita, viene intaccata dal dubbio che il procedimento conoscitivo razionale sia soltanto un gioco inutile e artificiale, che non porta ad alcuna vera conoscenza. L’immagine finale di un’umanità alienata, che scorre senza posa nella città, esce dall’ambito razionale. La scrittura procede per variazioni su uno stesso tema, in una sorta di sillogismo difettoso che afferma un concetto, lo sviluppa e non offre una sintesi, anzi mette in dubbio l’assunto iniziale.

Il testo è tratto dalla raccolta più significativa, ‘Variazioni belliche’, titolo che rimanda immediatamente alla musica: le variazioni sono modifiche, più o meno profonde, rispetto ad una forma originaria. Fu Pier Paolo Pasolini nel 1964 a dare lo stimolo per la pubblicazione dell’opera, e fu tra i primi a cogliere la forza creativa degli ‘errori’ e degli scarti linguistici, delle alterazioni della lingua italiana e delle invenzioni che caratterizzano la poesia di Rosselli: gli preti, volei, la denta, treccie, lancietta, angioli, ei, pulchritudine, guantarsi, scalinare, ; una tendenza a distorcere la lingua italiana, direttamente derivante dall’inconscio o intenzionalmente ricercata per creare effetti fonici.

A ‘Serie ospedaliera’ del 1969 appartiene ‘Ténere crescite’, in cui la sperimentazione linguistica restituisce l’esperienza della malattia psichica come finestra privilegiata da cui osservare l’esistenza.

“Tènere crescite mentre l’alba s’appressa tènere crescite / di quest’ansia o angoscia che non può amare né sé né / coloro che facendomi esistere mi distruggono. Tenerissima / la castrata notte quando dai singulti dell’incrociarsi / della piazza con strada sento stridori ineccepibili, / le strafottenti risa di giovanotti che ancora vivere / sanno se temere è morire. Nulla può distrarre il giovane / occhio di tanta disturbanza, tante strade a vuoto, le / case sono risacche per le risate. Mi ridono ora che le / imposte con solenne gesto rimpalmano altre angosce / di uomini ancor più piccoli e se consolandomi d’esser / ancora tra i vivi un credere, rivedo la tua gialla faccia / tesa, quella del quasi genio- è per sentire in tutto / il peso della noia il disturbarsi per così poco”.

La persona malata è spietatamente lucida nell’osservare la realtà e sa mettere a nudo quanto di inautentico si annida negli automatismi della vita: attorno alla poetessa sia specifiche situazioni sia le persone che sono con lei nei luoghi della sofferenza si rivelano incapaci di entrare in relazione con il suo mondo di dolore allucinato; noncuranza e crudeltà degli altri contribuiscono ad acuire il disagio e l’unica vera tenerezza in questo quadro tormentato è quella con cui la Rosselli osserva se stessa e la crescita del suo martirio.

Lo sperimentalismo linguistico è evidente nell’uso della punteggiatura, nella scelta delle ripetizioni, nella sintassi ininterrotta tenuta insieme attorno ad ossessivi elementi ricorrenti, gli effetti musicali del significante sono funzionali ad una ricerca di ordine nel caos dell’esistenza.

La raccolta del 1979, ‘Impromptu’, rivela nel titolo l’impianto musicale delle composizioni e il suo essere organizzata sull’improvvisazione.

“Quando su un tank m’avvicino / a quel che era un tango, se / la misericordia era con me /quando vincevo, e invero / se la tarda notte non fosse / ora ora di mattino, io non / scriverei più codeste belle / note!—Davvero mi torturi? / e davvero m’insegni a non / torturare la mente in agonia / d’altri senz’ agonia, ma mancanti / al sole di tutti i splendidi / soldi che hai riconosciuto / nella Capitale del vizio / che era Roma? E tu frassine / oh lungo fratello d’una volta / chiamato Pierpaolo, un ricordo /

soltanto ho delle tue vanaglorie / come se in fondo fosse l’ambizione / a gettar l’ultimo sguardo / dall’ultimo ponte”.

In un vero e proprio flusso di coscienza, il percorso ritmico – musicale si apre all’insegna del gioco fonico: l’immagine bellica del ‘tank’ chiama in causa la sfera ludica e passionale del ‘tango’, senza un apparente legame logico, anche se il tema della battaglia viene ripreso in riferimento alla vittoria sull’angoscia delle tarde ore notturne, attraverso la forza dell’ispirazione creativa e della scrittura; il monologo prosegue con un invito a non torturarsi con pensieri distruttivi, per poi slittare all’esterno sulla città di Roma associata alla decadenza. Il testo si chiude con la rievocazione di Pasolini, immaginato come un albero di frassino e come un famigliare, ‘un lungo fratello di una volta’, e ricordato in alcuni tratti del suo carattere, ‘vanaglorie’ e ‘ambizione’, che sembrano assumere la valenza di un ferale annuncio della fine del poeta.

Le strofe sono brevi, come in una partitura musicale, le frasi sono spezzate continuamente da enjambements che privilegiano il significante sul significato; la musicalità è enfatizzata dalle assonanze, dalle ripetizioni e dall’insistenza sull’area semantica della tortura.

Non è bastata una lingua personale, viva e vertiginosa, come antidoto all’instabilità, come tentativo di saziare la fame di appartenenza e ricomporre un’identità scissa e precaria. L’ultima depressione è stata senza ritorno: “Stona la vita, / si spegne da sé / la speranza si spiuma / faticosa a mettersi insieme / non ne vuol più sapere / i pensieri sono poi ovali, o opachi”.

Amelia volò dalla finestra della sua casa romana l’11 febbraio 1996.

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Claudia Cominoli

Claudia Cominoli

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