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Provate a immaginare di essere davanti al televisore e di assistere a una partita di calcio. L’attaccante entra in area e scocca il tiro, il portiere immobile e la palla che viaggia verso la linea di porta. Immaginate che in quel momento il segnale si blocchi e la palla rimanga lì. Imparabile per il portiere ma ferma a mezzo metro dalla linea. Più o meno è la situazione con cui si trova a fare i conti oggi il mondo del calcio italiano, sospeso in maniera ormai definitiva da quel 9 marzo in cui in un Italia già in “quarantena”, a fare il giro del web era l’esultanza di “Ciccio” Caputo. L’attaccante, autore di una doppietta nel match di serie A vinto per 3-0 dal suo Sassuolo con il Brescia nell’ultimo match di calcio giocato (a tutti i livelli!) nel nostro Paese, festeggiò con il cartello “Andrà tutto bene, restate a casa” in favore di telecamera.

 

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Da allora il pallone è sospeso. Sospeso tra il buon senso di annullare una stagione che in ogni caso è falsata dall’arrivo del Covid-19, e la ragion di bandiera, che porta ogni singolo club a difendere il proprio micro interesse, che sia economico, di classifica o entrambi. Sospeso tra la speranza di rientrare in campo dopo il 3 aprile, poi dopo Pasqua, poi il 3 maggio e oggi dopo ancora e la consapevolezza che tirarla troppo lunga danneggerebbe in maniera forse irreparabile anche la prossima stagione. L’orizzonte temporale della “liberazione” viene spostato un po’ più avanti ogni giorno: vale per chi spera di tornare a passeggiare libero, vale per chi conta di riaprire la propria attività prima che sia troppo tardi… vale per chi vuole tornare in campo per amor di sport e per ragione d’azienda.

Sì, perché un errore che non va commesso quando si parla di calcio è quello di considerare i club, specie ad alto livello, come semplici entità sportive. La realtà è che si ha a che fare con quelle che sono letteralmente piccole, medie e grandi aziende di cui i calciatori milionari rappresentano la punta, dorata ma sempre e comunque minoritaria in termini relativi, di un iceberg che racconta realtà ben differenti. Realtà fatte di impiegati e operai del pallone, che sono la maggioranza nelle serie minori tra chi va in campo e, a tutti i livelli, tra chi da anima e sostanza ai club stessi nell’attività quotidiana (magazzinieri, addetti alla biglietteria, segretari…). Così si parla di giocare a giugno e a luglio, magari anche ad agosto. Poco importa che ci sono una serie di vincoli da aggirare (contratti e prestiti hanno decorrenza sempre al 30 giugno), la sensazione è che per molti sia importante scendere in campo e basta. A ogni costo. Per salvare la stagione e gli obiettivi conquistati (o meglio, che si potrebbero conquistare) sul campo… e ovviamente per salvare i bilanci.

Il calcio è sospeso. Tra la volontà di ripartire e la realtà che frena un numero sempre maggiore di club. Ogni giorno che passa rende più complicata e improbabile una ripartenza e oggi sarebbe il caso di cominciare a valutare seriamente un piano B. Che il calcio, così come ogni altra attività di quella quotidianità ormai mutata, riparta se lo augurano un po’ tutti, vorrebbe dire che il Paese è uscito dall’emergenza. Se così non sarà in tempi brevi, però, occorrerà arrivare al momento delle decisioni con le idee chiare e un piano B valido. Un piano B che non potrà mai accontentare tutti, questo è un dato di fatto, come nessun verdetto stabilito a tavolino potrà mai fare. Per questo al “pallone” servirà l’appoggio delle istituzioni. Diversamente, dopo il Covid-19 saranno i tribunali, tra ricorsi e controricorsi, a tenere il pallone in sospeso. Sarebbe una sconfitta, un’altra, per tutti.

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Giuseppe Maddaluno

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