Capita a chiunque di sentirsi fragile, soprattutto a chi varca la soglia di un pronto soccorso e qualche giorno fa è capitato a me. Non voglio soffermarmi sulla cronaca del mio caso, ma partire da questa per parlare di ciò che conta davvero: la qualità, l’umanità e il valore collettivo della nostra sanità pubblica. Un’infezione da puntura di insetto con gonfiore alla caviglia e febbre a 38, dopo un trattamento antibiotico già iniziato, mi ha costretto al pronto soccorso dell’ospedale Maggiore di Novara dove il triage mi ha assegnato codice verde. Ma l’accoglienza è stata fredda, senza nessuna valutazione medica, soltanto attesa e un trattamento di chi sembrava essere un elemento di disturbo piuttosto che un caso di cui prendersi cura. Così, dopo aver compreso che in quella stanza calda e sovraffollata c’erano persone che aspettavano di essere visitate da più di 10 ore, ho scelto di andare a Magenta dove sono entrato con il codice azzurro e sono uscito con sette giorni di iniezioni e cortisone. Fin qui la parte personale, che chiudo subito.
Perché il punto non è il singolo episodio: è ciò che rivela. Chi lavora nei pronto soccorso vive una pressione costante, turni massacranti, carenze di organico, un flusso crescente di casi differenziati. Capisco la fatica e lo stress degli operatori e non intendo puntare il dito su di loro. Se il dialogo talvolta si fa brusco, è spesso un sintomo di un sistema che si sta sfilacciando, non di una mancanza di umanità individuale. Colpevolizzare il singolo operatore è una scorciatoia emotiva che ci allontana dal nodo reale: le condizioni di sistema che abbiamo – o non abbiamo – deciso di creare.
Articolo 32 della Costituzione: la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale e interesse della collettività. Non è un mantra astratto: è un programma politico. Ogni scelta di bilancio, ogni turno scoperto, ogni concorso rinviato, ogni reparto accorpato sono un atto di erosione di quel principio. Siamo abituati a considerare il servizio sanitario pubblico come una certezza immutabile. In realtà, anche in Piemonte attraversa una fase delicata: personale ridotto all’osso, risorse limitate, ricorso a professionisti a gettone, difficoltà nel reclutamento stabile. Da questa tensione nascono incomprensioni, frustrazione e un reciproco senso di abbandono, sia nei pazienti che negli operatori.
Proprio per questo la domanda che ci dobbiamo porre è: quanto è prezioso poter entrare in un luogo dove la cura non dipende dal portafoglio, dall’età, dal lavoro, dalla provenienza? La sanità pubblica non è un automatismo amministrativo: è un progetto politico che va rinnovato ogni giorno. Il Piemonte ha avviato una sperimentazione sull’umanizzazione dei Pronto Soccorso: 70 requisiti per rendere gli spazi più accoglienti, informativi e meno ansiogeni (schermi con informazioni, wi‑fi, aree per i familiari, spazi dignitosi). È un percorso necessario, ma non possiamo illuderci che l’umanizzazione – intesa come arredi, dispositivi, protocolli comunicativi o corsi di relazione – basti, se non è sostenuta da pilastri strutturali.
La domanda vera è: quanto potrà cambiare se continua a mancare forza lavoro, se gli urgentisti si riducono, se la precarietà resta l’unico modo per coprire i turni, se la pressione numerica non cala perché il territorio non assorbe, se la medicina di prossimità non si consolida? L’umanità non si aggiunge per decreto: fiorisce dove c’è tempo minimo per esercitarla, dove la squadra è stabile, dove la formazione non è un lusso serale dopo dodici ore di corsia.
Il mio invito è a prenderci cura della comunità di cui siamo pazienti, cittadini, contribuenti. Siamo tutti dentro un sistema sotto sforzo; la ricetta non è la gogna, ma la valorizzazione reciproca e difendere la sanità pubblica significa rafforzare i suoi ecosistemi. La sperimentazione sull’umanizzazione è una speranza, ma perché diventi sostanza serve un progetto coerente: assunzioni e stabilizzazioni, ambienti adeguati, strumenti digitali che semplifichino invece di moltiplicare il carico, percorsi formativi continui su empatia e ascolto, triage potenziati, filtri territoriali attivi per i casi minori, sistemi di monitoraggio trasparenti sui tempi di attesa.
La vera sfida politica sta nel decidere di investire – non solo contabilmente, ma culturalmente – nella sanità pubblica come infrastruttura sociale strategica, al pari dell’energia o della scuola. Non possiamo darla per scontata, perché se oggi veniamo accolti in emergenza lo dobbiamo a un’idea di salute come bene comune, costruita nel tempo e a fatica. Ma questa idea va rinnovata, rilanciata, ripensata, senza ridurla a una voce di bilancio da comprimere nelle manovre.
Nessuna formazione relazionale regge se il professionista non ha tempo, se cambia reparto ogni mese, se vive nell’incertezza contrattuale. Se non interveniamo subito il rischio è uno scivolamento silenzioso verso un modello a due velocità: un pubblico di attesa e un privato di accesso rapido per chi può permetterselo. La perdita non sarà improvvisa: sarà una serie di micro‑rinunce finché un giorno ci accorgeremo che ciò che consideravamo universale è diventato residuale.
Questo è un tema politico nel senso più nobile: decidere che tipo di società vogliamo quando siamo più vulnerabili. Per questo serve un patto di comunità: cittadini più consapevoli e responsabili dell’uso appropriato dei servizi, istituzioni più presenti e trasparenti, operatori ascoltati e valorizzati e media capaci di raccontare complessità senza cercare solo l’episodio scandalistico.