“Novara è una città morta”. È una frase che si sente ovunque, come un mantra di rassegnazione e sconforto. La sentiamo quando le piazze sono vuote, quando la politica locale dorme, quando pare che la città sia rimasta ferma a un tempo sospeso.
Poi, però, quando qualcosa finalmente succede, quando le persone scendono in strada, quando i giovani si fanno sentire, quando qualcuno prova a dire che il mondo non finisce al cavalcavia allora com la stessa forza di quella lamentosa cantilena cominciano i sospiri, le lamentele, gli insulti online: “non serve a niente”, “pensate a lavorare”, “fate solo casino”.
In questi giorni, a Novara come in molte città italiane, le manifestazioni per la Palestina hanno riempito le piazze. Abbiamo seguito quelle piazze e abbiamo seguito i commenti online ai racconti che abbiamo provato a farne: centinaia di voci, spesso arrabbiate, spesso sprezzanti. Colpisce la ripetitività di certe frasi: “Scioperare non serve”, “pensate a lavorare”, “non cambia niente”. Un ritornello che suona come una resa. Ma la verità è che tutto ciò che oggi diamo per scontato è nato da qualcuno che “ha perso tempo” a manifestare. Ogni conquista è cominciata con qualcuno che disturbava l’ordine delle cose. Scioperare serve, anche quando non porta risultati immediati: serve a dire che non tutto è accettabile, a costruire una memoria collettiva, a ricordarci che la dignità umana non é un valore negoziabile.
Forse ciò che davvero infastidisce non è lo sciopero in sé, ma l’idea che qualcuno, spesso giovanissimo, abbia ancora la forza di indignarsi. È una reazione antica, figlia della paura di essere superati da chi ha ancora tempo per credere. I giovani non hanno il dovere di essere esperti di geopolitica, ma hanno il diritto di reagire davanti a un massacro. E se scelgono la piazza invece dell’indifferenza, dovremmo ringraziarli, non zittirli. Sui social, invece, si muove un coro stanco e aggressivo fatto di commenti fotocopia, slogan preconfezionati, sarcasmo che confina con la violenza.
È la nuova forma del qualunquismo: dire che “tanto non cambia niente”, che “sono tutti uguali”, che “è tutto troppo complicato”. Ma dire che tutto è complicato non è un segno di equilibrio, è una scusa per non prendere posizione. In questa indifferenza organizzata, chi osa nominare le cose con il loro nome viene subito accusato di estremismo.
Anche i giornalisti non ne escono indenni. Raccontare Gaza oggi è un esercizio di sopravvivenza: ogni parola è un bersaglio. Si chiede ai cronisti di essere “neutri”, “equilibrati”, “super partes”. Ma come si può essere equidistanti tra chi bombarda e chi muore sotto le bombe?
Un giornalismo che rifiuta di dire “genocidio” per paura di sembrare militante non è neutro: è complice. Il linguaggio è l’ultimo fronte della disumanizzazione: quando smettiamo di nominare l’orrore, iniziamo ad accettarlo.
Forse la domanda vera non è se scioperare o manifestare “serva”. Forse dovremmo chiederci perché abbiamo così paura della partecipazione e perché ci infastidisce chi prova a resistere all’indifferenza.
La risposta, forse, è semplice: chi scende in piazza ci ricorda che potremmo, e dovremmo, fare di più. E questo, per molti, è intollerabile.
“Novara é una città morta”, diciamo. Ma quando qualcosa finalmente succede, quando le voci si alzano, quando i ragazzi occupano le strade, quando la città si guarda allo specchio e si accorge di essere viva, allora dovremmo fermarci un momento e ascoltare. Perché quel rumore che ci infastidisce non è disordine: è democrazia.
È il suono, fragile ma necessario, di una comunità che prova ancora a restare viva.