C’è una frase che ogni giornalista conosce bene: la piazza è di tutti. È lo spazio pubblico per eccellenza, quello in cui si esercita il diritto di manifestare, ma anche il dovere di raccontare. Ieri mattina, invece, in quella piazza qualcosa si è incrinato: durante la manifestazione di gruppi neofascisti a Novara, un giornalista de La Voce è stato avvicinato e invitato ad allontanarsi in un tentativo di intimidazione. Nessuna conseguenza fisica, per fortuna. Ma l’episodio in sé basta e avanza per dire che qualcosa non funziona. Perché se chi manifesta pretende di decidere chi può raccontare e chi no, quel “pubblico” diventa proprietà privata, e la libertà di informazione si riduce a concessione.
C’è chi, guardando il video e leggendo l’articolo pubblicato sul sito della nostra testata giornalistica, ha reagito con fastidio. Altri con rabbia. Centinaia di commenti, favorevoli e contrari, sono piovuti sui social: tra chi difende la libertà di parola dei manifestanti e chi, invece, quella di cronaca. Ma nel mare dei commenti – e ce n’è anche uno di un consigliere comunale della Lega, che sembra più preoccupato di giustificare la piazza che di tutelare un principio costituzionale – emerge un fatto ancora più inquietante: molti non vedono più la differenza tra diritto di opinione e tentativo di manipolazione. Un profilo che si firma Edmond Dantès (povero Dumas…), uno degli organizzatori, rivendica la manifestazione e il comportamento messo in atto. Come se il problema fosse raccontare e non quello che è accaduto.
Dentro questo clima, si consuma anche una grande semplificazione. In certe piazze, sempre le stesse, si riduce tutto a un’equazione: immigrato uguale delinquente. È il riflesso automatico di un linguaggio che da anni, sui social come in politica, si nutre di paure più che di fatti. E così si arriva a parlare di “remigrazione”, parola che in apparenza suona tecnica, quasi neutra, ma che in realtà significa una cosa sola: deportazione. Non è un’invenzione semantica: è la stessa logica su cui si reggono le politiche più radicali in corso, ad esempio, negli Stati Uniti, dove il progetto di creare deportation camps per i migranti irregolari è tornato nel lessico politico ufficiale. Chi pronuncia “remigrazione” pensa forse a un rimpatrio ordinato. Ma nei fatti immagina un Paese dove qualcuno decide chi è “di troppo” e chi può restare. È un’idea incompatibile con la Costituzione italiana, con la storia europea, con qualunque nozione di civiltà democratica.
Ma i numeri raccontano tutt’altro rispetto ai proclami di piazza. A Novara, già nel 2018, nel quartiere di Sant’Agabio, gli stranieri erano il 27,6% della popolazione. Oggi, secondo i dati comunali più recenti, gli stranieri residenti rappresentano circa il 15,9% del totale della città (16.441 persone su 103mila). Nel Piemonte, al 1° gennaio 2025, gli stranieri residenti sono 448.862, una quota ormai strutturale. E non parliamo di “ospiti”, ma di cittadini che lavorano, mandano i figli a scuola, pagano tasse, tengono in piedi interi settori produttivi. A livello nazionale, secondo il XIV Rapporto “Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia”, gli occupati stranieri sono oltre 2,4 milioni, più del 10% degli occupati totali. Nel 2024 la loro occupazione è cresciuta del +7,8%, mentre quella degli italiani solo dello 0,6%.
Senza immigrati, settori come agricoltura, edilizia, logistica, assistenza familiare e ristorazione semplicemente non funzionerebbero. E senza di loro, la già drammatica crisi demografica sarebbe ancora più grave. L’Italia perde ogni anno circa 150mila abitanti e ha un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa. In questo scenario, parlare di “tornarsene a casa” non è solo moralmente sbagliato: è economicamene un suicidio.
Eppure, nella piazza di ieri e in quelle virtuali dei commenti, la realtà scompare. Si discute come se gli stranieri fossero solo un’invasione, non una componente sociale ed economica ormai strutturale. Si mescola il tema della sicurezza con quello dell’identità nazionale, come se la prima si ottenesse solo negando la seconda agli altri. Si dimentica che, proprio nel novarese, molti imprenditori hanno più volte dichiarato di fare fatica a trovare manodopera italiana e si affidano a lavoratori stranieri per mandare avanti le aziende. E che dietro ogni “permesso di soggiorno” c’è una storia di lavoro, di famiglia, di fatica, di contributi versati allo Stato.
Quando il dibattito pubblico scivola nella propaganda, quando la politica normalizza linguaggi estremisti, si apre la porta a qualcosa di più pericoloso: la banalizzazione dell’odio. Qualcuno ha scritto nei commenti frasi come «Tanto lo sapevamo che avreste scritto contro di noi, l’avete già fatto» è la dimostrazione che si confonde la cronaca con l’opinione. La Voce di Novara non ha scritto contro nessuno: ha semplicemente fatto il proprio mestiere. Avremmo potuto scegliere di non esserci, di ignorare quella manifestazione per non darne visibilità. Ma non l’avremmo fatto bene, né da giornalisti né da cittadini.
Raccontare quello che accade, anche quando è scomodo, per il giornalista non è un diritto, è un dovere perchè i cittadini hanno il diritto di essere informati. E chi tenta di impedirlo non colpisce la stampa: colpisce la democrazia. Il giornalismo non deve piacere. Deve servire. Deve essere lì, dove il potere – politico, economico o simbolico – vorrebbe silenzio. E ieri la piazza, seppur in piccolo, ha mostrato quanto quel silenzio faccia ancora gola a qualcuno.
Ma non possiamo fingere che questi episodi siano isolati. Negli ultimi anni l’Italia ha imparato a condannare giustamente ogni estremismo, ma mai non allo stesso modo. L’estrema destra, pur essendo portatrice di un linguaggio e di simboli che la nostra storia dovrebbe aver reso intollerabili, continua invece a essere tollerata anche a livello istituzionale. Lo si vede nelle parole, nei gesti, nelle assenze di condanna. Lo si vede quando si accetta di equiparare antifascismo e antifà, come se fossero equivalenti.
E allora sì, la piazza di ieri non è solo un episodio locale: è uno specchio che ci dice che certe parole e certi simboli hanno trovato spazio, e che troppo spesso chi governa – per calcolo o convenienza – sceglie di non vedere.
Chi ha gridato «non puoi riprendere» forse non se ne rende conto, ma ha detto una cosa molto più ampia: non puoi guardare, non puoi sapere. È la negazione del principio su cui si regge una società libera.
Il giornalismo serve proprio a questo: a garantire che anche ciò che dà fastidio venga visto, registrato e raccontato. E la libertà di informazione non si difende solo quando ci riguarda direttamente: si difende sempre, anche quando ci mette a disagio.















