Carpignano Sesia

La cassoela

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Oggi ho mangiato un piatto di cassœla. L’ho ordinata “da portar via” (ovvero “take away” per i fighetti e da “asporto” per i burocrati) al bar-ristorante “Corona” (“ristobar” per le shampiste) in centro a Novara. Troppo difficile cucinarla in casa perché, secondo mia moglie, dopo si muore soffocati dall’odore della verza e gli altri condomini del palazzo, “fighetti” pure loro, si indignano, eppure la conosce bene anche lei, milanese di nascita. Una cara amica mi ha detto che a lei “piacerebbe”, però non digerisce la verza. Ma la verza non si deve digerire! Deve “ballare” un po’ sullo stomaco, altrimenti vuol dire che cassœela non è venuta bene. E al gran ballo sullo stomaco devono partecipare anche piedini di maiale, costine, cotenna, ecc. a seconda delle varianti della ricetta.

Certo bisogna saperla cucinare ma io credo di saperlo fare, perché mia mamma Angelica la cucinava bene avendo imparato da mia nonna. Inutile che cerchiate, non c’è nessuna foto. Non c’è per scelta. Di solito, quando si mangia un piatto prelibato, ma anche una pizza doc, sui social si pubblica la foto; la foto però non racconta niente, mostra. Invece qui c’è da raccontare, non tanto la storia del piatto, che potete trovare sul “Talismano della felicità”, ma anche su Wikipedia, quello che c’è da raccontare è lo “Zeitgeist” che c’è dietro la cassœla. Un piatto da muratori (il termine potrebbe derivare proprio da “cazzuola”), solo che adesso i muratori mangiano solitamente il “cous cous” o il “tavë kosi”, essendo in gran parte marocchini o albanesi. Diciamo che era un piatto di quando gli italiani facevano anche i muratori.

 

A casa mia nessuno faceva il muratore, ma siccome era anche un piatto povero, lo mangiavamo da poveri. Per essere sinceri non è che lo mangiassero solo i poveri, ma diciamo che i poveri lo mangiavano con più gusto, visto che i ricchi cominciavano a mangiare il “vitel tonné”, così si potevano dare il tono dei francesi, che però il “vitel tonné” non sapevano nemmeno cosa fosse e preferivano la “choucroute”, che altro non è che una versione nordica della cassœla.

Va bene, dopo questo sfoggio di cultura culinaria, vi racconto cosa mi ricorda la cassœla: mia nonna davanti alla stufa a legna prima e mia mamma davanti alla “cucina economica” dopo, le piastrelle bianche bagnate dalla condensa, la segatura per terra nelle trattorie quando fuori pioveva, l’odore del carbone per la strada nelle mattine d’inverno, i passaggi a livello nella nebbia, il senso di sazietà e di felicità. Insomma quel sentimento di godimento dei sensi, “l’effetto-aglione”, come lo chiamava Guccini in “Cronache Epafaniche” (o l’effetto-Madeleine per quelli che hanno fatto il Classico).

Altro che apericena milanesi in Corso Como, meglio una cassœla al Binari, da Arlati o al Cantinone nella versione meneghina (prima che anche in questi posti arrivassero i designer e la fashion week).

Va beh, per non tirarla troppo lunga e in attesa che la cassœla finisca di ballare, un consiglio alle donne: imparate a farla, perché agli uomini piace molto di più dell’acido iarulonico. Altrimenti compratevi il “Trattato di culinaria per donne tristi” di Héctor Abad Faciolince e non lamentatevi se non troverete marito (o se una volta trovato, lo perderete).

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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