Il tema del contributo delle imprese al bene comune di per sé esiste ed è anche assai importante. Ne parlano da anni gli economisti – e non solo cristiani – e ne sono “informati” i criteri ESG, soprattutto per il settore delle grandi aziende quotate e ancor più per gli intermediari finanziari. Sono proprio questi soggetti a dover avere un ruolo di leadership nell’incentivare e praticare per primi le buone pratiche e la sostenibilità.
Ne parliamo con Paolo Bonazzi, imprenditore e amministratore di varie società industriali e finanziarie, oltre che presidente Ucid Novara.
Partiamo dall’attualità. Al Meeting di Rimini il ministro Salvini ha rilanciato un concetto preciso: chiedere alle banche un contributo diretto per la società italiana e per i redditi delle persone, in virtù dei profitti accumulati negli ultimi anni. Lei che ne pensa?
Premesso che considero legittima e in buona fede l’espressione del ministro, che però non è un esperto di banche e finanza, credo che il tema sia complesso e meriti riflessione. Personalmente, non condivido questa impostazione. Perché, ad esempio, non si chiede lo stesso a Fiat, Pirelli o Barilla? Perché non si propone una linea di pneumatici low cost secondo ISEE o merendine destinate a famiglie a basso reddito?
Quindi lei ritiene che ci sia un atteggiamento diverso quando si parla di banche rispetto alle altre imprese?
Sì, direi proprio di sì. Con le banche non abbiamo mai avuto un rapporto sereno: sono spesso percepite come un “corpo separato”. Qualcosa di simile si era visto anche parlando degli “extra profitti” nel settore energia. In realtà, il contributo sociale delle imprese – bancarie e non – dovrebbe passare prima di tutto dalla corretta compliance alle norme, dall’adesione a principi di sostenibilità e integrità. E soprattutto dal pagamento delle tasse. Il vero dramma italiano è l’evasione fiscale, che scuote troppo poco le coscienze.
Lei ha usato un’espressione forte: certe proposte ricordano approcci sovietici. Perché?
Perché parlare di tassazioni speciali o di contributi forzosi sulle imprese richiama modelli economici che hanno portato soltanto miseria e limitazioni della libertà. Se i profitti sono legali, correttamente tassati e non frutto di evasione, non vedo perché debbano essere demonizzati. Diverso è il discorso quando ci sono comportamenti illeciti.
In effetti nell’immaginario collettivo le banche non sono percepite come normali imprese.
Esatto. C’è una visione distorta: le consideriamo organi ausiliari del buon governo o del welfare, mentre in realtà sono imprese – vigilate, certo, ma pur sempre imprese. Talvolta sono le stesse banche ad alimentare questa percezione, quando si fanno chiamare con sussiego “istituti di credito” o “ceto bancario”, o quando trattano il cliente da suddito, convocandolo in filiale anziché recandosi da lui.
Quindi in qualche modo si meritano le critiche della politica?
Direi di sì, almeno in parte. Ma anche cittadini e imprese non sono immuni da responsabilità. Troppo spesso si indulge in luoghi comuni: la “banca del territorio” interpretata come credito facile, agevolato dal politico, dall’amico potente o perfino da qualche monsignore. Ammettiamolo: anche noi imprenditori abbiamo le nostre colpe. Ci piace farci chiamare tali al Rotary, ma poi spesso intraprendiamo sulle spalle di banche, dipendenti, fornitori e fisco.
Dunque qual è, secondo lei, il vero contributo sociale che le banche (e più in generale le imprese) dovrebbero garantire?
Credo che la vera sensibilità sociale si misuri nell’etica dei comportamenti, sia dei banchieri e funzionari, sia dei manager e imprenditori in generale. Vuol dire contrastare lavoro nero ed evasione fiscale, garantire la competenza e l’integrità delle figure apicali, rispettare i diritti costituzionali di donne e lavoratori, vigilare sulla legalità e trasparenza delle filiere. E ancora: rivedere politiche retributive imbarazzanti che stanno spaccando la società. Questo sì che sarebbe un contributo sociale concreto. E aggiungo: profondamente cristiano, per chi si professa tale.