Questa mattina, nella basilica di San Gaudenzio, in tanti si sono stretti attorno ai feretri di Mario Paglino e Gianni Grossi, morti nel tragico di domenica sull’A4. Un momento di dolore, certo, ma anche di commozione profonda per una storia d’amore che ha segnato una comunità intera, ben oltre i confini della loro casa e delle loro vite. Eppure, proprio in quel momento solenne, le parole usate durante l’omelia – “un’amicizia” – hanno lasciato un sapore amaro. La loro relazione non era solo quella di due amici, ma di due persone che si sono amate, rispettate, sostenute e che hanno condiviso le gioie e le difficoltà della vita quotidiana.
Perché ridurre il loro amore a un legame di amicizia? Perché la Chiesa sembra avere paura di chiamare l’amore per quello che è, in tutte le sue forme? Non si tratta di un’accusa alla figura del celebrante, ma di una domanda che si è insinuata nella mente di tante e tanti questa mattina. È una domanda che riguarda il linguaggio e la percezione dell’amore omosessuale all’interno della comunità cristiana, una riflessione che merita di essere fatta con rispetto, ma anche con il coraggio di affrontare la realtà.
Le parole non sono semplici etichette, ma strumenti di realtà che plasmano il modo in cui percepiamo il mondo. Usare “amico” per indicare un compagno di vita è una scelta che rischia di cancellare la dignità e la complessità di una relazione affettiva che va ben oltre la mera amicizia. È un linguaggio che non solo nega la verità della relazione tra due persone che si sono amate, ma rafforza anche un muro di silenzio e vergogna che troppe persone si sentono costrette ad attraversare. Non si tratta solo di una questione di parole: dietro a queste, spesso ci sono storie di sofferenza, di solitudine, di emarginazione. Per chi ha assistito questa mattina alla celebrazione, il dolore è stato amplificato dalla sensazione che la verità dell’amore condiviso non sia stata riconosciuta pienamente.
La Chiesa cattolica, oggi più che mai, è chiamata a interrogarsi sul significato di parole come amore, accoglienza, rispetto. Papa Francesco, nel corso del suo pontificato, ha più volte tentato di aprire spiragli di dialogo e comprensione: «Chi sono io per giudicare?» disse nel 2013, parlando delle persone omosessuali che cercano Dio con sincerità. Questo incontro di misericordia, che ha segnato un cambiamento nel tono del discorso ecclesiale, ha gettato le basi per una riflessione più aperta. Papa Francesco ha anche aperto a un maggiore riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, una posizione che ha sollevato discussioni, ma che ha anche dimostrato la sua attenzione alle esigenze di protezione giuridica e sociale. È poco? Forse, ma è anche un passo avanti che ha rinfrancato i cuori di molte persone omosessuali e profondamente credenti.
Francesco aveva anche sottolineato come la dimensione dell’amore cristiano non debba essere ristretta dalla logica della condanna. Anziché condannare chi ama in modo diverso, il Vangelo invita a una presa in carico dell’altro, con un atteggiamento di accoglienza e rispetto. In questo senso, la testimonianza di una vita vissuta in modo autentico diventa un invito per tutti a scoprire la bellezza di un amore che trascende i pregiudizi e le categorizzazioni rigide. Nel Vangelo, Gesù ha parlato di amore, di misericordia, di verità. Ha sfidato le ipocrisie, si è avvicinato agli esclusi, ha restituito dignità a chi era ai margini.
Non si può negare che il linguaggio e le tradizioni della Chiesa siano stati plasmati da secoli di insegnamenti e di interpretazioni culturali. Tuttavia, il mondo cambia e le esperienze di vita di tante persone portano con sé la necessità di aggiornare il lessico e l’approccio pastorale. Riconoscere apertamente un’unione affettiva tra due uomini – o tra due donne – non significa invadere un ambito di liturgia isolato, ma soprattutto dare dignità all’amore autentico e al cammino comune di due anime in cerca di verità e di sostegno reciproco. Di fronte a due uomini che hanno vissuto insieme, amandosi nel rispetto e nella libertà, la Chiesa dovrebbe avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.
Non per fare ideologia, ma per onorare la verità di quelle vite, per rispettare il dolore di chi resta, per testimoniare un Dio che è amore – sempre e comunque. Non è solo una questione semantica: è una questione di giustizia, di ascolto, di fedeltà al messaggio del Vangelo. Perché a volte, dire “amore” è già un atto profetico, come hanno fatto le due mamme (in foto) di Mario e Gianni che strette in un abbraccio quell’amore lo hanno gridato.
(foto di Alessandro Visconti)