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Elmgreen & Dragset, “Useless Bodies?”

Se qualcuno pensasse che artisti come Orlàn o Stelarc che, qualche decennio fa, alterando, distorcendo e anche maltrattando il loro corpo, avessero preconizzato il futuro del cyber-corpo e ci avessero visto giusto, ebbene si sbagliava. O almeno si sbagliava in parte poiché, se è vero che gli innesti cibernetici sono diventati una pratica quotidiana in campi come la chirurgia o la scienza, in arte il corpo umano è andato molto oltre le preconizzazioni immaginifiche della body art: il corpo umano oggi è semplicemente scomparso. E quando non è scomparso del tutto, è mummificato, finto, talvolta un simulacro nemmeno presente. A sostenerlo e a dimostrarlo ampiamente è la straordinaria mostra “Useless Bodies?” di Elmgreen & Dragset alla Fondazione Prada di Milano, visitabile fino al prossimo agosto. La presenza fisica dell’uomo post-industriale e post-tutto, sembra non necessaria o comunque sembra aver perso la propria centralità, proprio il corpo che per l’arte è stato quasi tutto. La mostra di Elmgreen & Dragset, danese il primo, norvegese il secondo, ha optato per installazioni site-specific che si possono definire sontuose, occupando tutti gli spazi espositivi della Fondazione, il Podium prima di tutto, con un allestimento dichiaratamente ispirato alla prima e memorabile mostra della Fondazione Prada, quel “Serial Classic” allestita proprio da Rem Koolhaas, che della fondazione è l’architetto e curata da Salvatore Settis. In questo primo, introduttivo e magnifico spazio espositivo, sono esposte sculture figurative, classiche e contemporanee, ma che sembrano evocare simulacri di corpi più che corpi stessi, proprio per la loro dialettica vero/falso e con un fitto gioco di sguardi e rimandi tra scultura del passato e scultura contemporanea. Tra le opere esposte la copia in gesso dell’Atleta con lo strigile”, calco in gesso del 1938, notissimo anche col nome di “Apoxyomenos”, copia di epoca romana del II secolo d. C. da un originale greco del IV secolo a.C. E già qui il gioco dei rimandi incrociati è affascinante. Il Podium è come una gipsoteca dell’immaginario, accanto ad “Apoxyomenos”, ecco “Bogdan”, figura di un uomo in sedia a rotelle che sposta drammaticamente la valenza simbolica, non solo della scultura come arte rappresentativa, ma anche “lo status” stesso di essere umano nel passare del tempo. Le figure umane di Elmgreen e Dragset rimandano a nuove abilità umane, messe a confronto con la posa plastica dell’antichità greca e romana. Ecco “Watching” del 2021, un bagnino assiso sul suo seggiolone che scruta le lontananze del mare, accanto ad un magnifico ed algido Bertel Thorvaldsen, dei primi decenni dell’Ottocento, mentre sulla parete est spicca il “Corridore” del I secolo a.C. (del Museo Archeologico di Napoli) e poco più in là, in stridente contrasto, lo scintillante “He” del 2013, la versione maschile della Sirenetta di Copenhagen, sempre di Elmgreen e Dragset. Potremmo continuare, ma le opere sono numerosissime e sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Qual è allora il senso di queste contrapposizioni plastiche? Credo si possa affermare che c’è qualcosa di più del semplice gusto del paradosso e credo che le ragioni estetiche risiedano nella analitica dimostrazione di come l’idea di “corpo in figurazione” sia completamente mutata nel corso dei secoli, siano cioè mutate le forme e le architetture dei corpi, ma anche la loro valenza simbolica ed ideale, fino a stravolgere letteralmente lo “status” della scultura. La scultura è mutata col mutare del simbolismo del corpo e Elmgreen e Dragset ci giocano, anche con un certa ironia.

Il secondo piano del Podium sembra disvelare una presenza umana ormai scomparsa, addirittura superflua, ricostruibile solo attraverso le tracce del suo passaggio. Qui un gigantesco ufficio deserto, popolato solo da cubicoli, da computer spenti e da piccole, povere tracce umane, come calendari, foto della famiglia, brevi appunti, bicchierini del caffè, vanno a costituire ambienti che sembrano provenire da un passato recente, quello del lockdown, per esempio, ma che preconizzano drammaticamente quello di un ipotetico e catastrofico futuro  prossimo venturo. Il secondo piano del Podium è forse il meno spettacolare di tutta la grandiosa mostra della Fondazione, ma certamente il più sconvolgente pur nella sua oggettiva neutralità, anzi forse proprio per questo: le postazioni dei computer non sono solo senza umani, sono al posto degli umani, ne evocano la presenza-assenza, ne celebrano in fondo l’inutilità. Le tracce umane sono residuali, superflue, anche un po’ patetiche. Gli umani sono forse in smart working? Il luogo è solo deserto a causa degli uffici chiusi? No, sono gli umani ad essere inutili, forse tra poco saranno inutili anche quei computers schierati che sembrano già anch’essi così obsoleti. Nella “Cisterna” la terza installazione, forse la più manierata e la meno convincente: lo spogliatoio  di una palestra o forse di un centro benessere, poco importa. Qui le tracce antropiche convivono con una figura umana in cera, sdraiata su un lettino (“The Touch” del 2011), opera iperrealista, ma molto molto lontana, dal realismo mimetico di un Duane Hanson o dalle enigmatiche figure, fuori scala, di Ron Mueck. Meglio “What’s Left?” gigantesco e funambolico individuo dondolante sopra le teste dei visitatori, appeso con una mano alla fune da cui sembra essere caduto. “What’s Left?” é la domanda scritta sulla sua maglietta, una domanda che ci facciamo un po’ tutti: cosa è rimasto? Domanda senza risposta, naturalmente, oppure con tante risposte, ognuno ha la sua o crede di averla. La piscina abbandonata (“Too Heavy” del 2017), e i resti di oggetti che la circondano, evoca solitudini esistenziali che però, a proposito di piscine e di solitudini, sembrano più imponenti, ma molto meno efficaci dei quadri di David Hockney. Trasferendosi nella galleria Nord della Fondazione, ecco un percorso attraverso una teoria di oggetti apparentemente domestici, forse addomesticati, oggetti da esibire ai quali ,un malinteso concetto di “design”, ha tolto ogni funzione per sacrificarli sull’altare di una inutile, seriale, egocentrica “rappresentazione”. Se mi è concessa una maligna osservazione, non c’è molta differenza tra “Humanized Architecture” (del 2019), tavolo rotondo con sedili su cui è impossibile sedersi, e i molti oggetti in mostra alla “Design Week” milanese di qualche settimana fa: il design non pare più al servizio dell’uomo, ma è l’uomo al servizio del design. La bellezza dell’autentico design, che derivava dalla funzionalità dell’oggetto, è ormai un paradigma rovesciato. Aveva visto molto lontano Bruno Munari, negli anni Settanta, quando distingueva tra “design” e “styling” e questa geniale esposizione di oggetti lo conferma. Ma non c’è solo il rovesciamento di questo paradigma nella galleria Nord. La riproduzione del “Quarto Stato” di Pellizza  da Volpedo in formato elettronico e, come sua predella, un contatore digitale delle visualizzazioni, del numero dei like, ed di altri dati, necessitano di pochi commenti e, men che meno, di approfondite elucubrazioni. Tra le opere più pregnanti e, “messe in situazione” da Elmgreen & Dragset, un magnifico “Concetto spaziale “ di Lucio Fontana del 1963, che abbisogna di tutto tranne che di spiegazioni, “Black” di Nancy Grossmann del 1973-1974 e “Untitled” (after the lovers) per gentile concessione della parigina Galerie Perrotin. Ma la più iconica opera della sezione, ma certamente anche la più scontata,  è “Untitled” del 2011, figura umana che esce per metà da una cella frigorifera di un obitorio. “Coup de theatre” che magari funziona come attrattore di visitatori, ma poco aggiunge alla narrazione dell’esposizione. Se in uno dei prossimi giorni, prima del 22 agosto, vi prendesse la voglia irrefrenabile di visitare una mostra che vi rigeneri la mente o ve la confonda definitivamente, Elmgreen & Dragset vi aspettano alla Fondazione Prada di Viale Isarco a Milano.

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Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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