[ditty_news_ticker id="138254"]

Chiara Camoni con “Chiamare a raduno” e molto altro

Appena messo piede nello “Shed” del Pirelli Hangar Bicocca, si ha la sensazione di entrare in una necropoli dove oggetti e divinità vi dimorano. Il titolo della mostra, “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse” al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, aperta fino al prossimo 21 luglio, è esso stesso un’opera. Non importa di quali divinità si tratti e, a dire il vero, nemmeno di quali oggetti si tratti. Nella necropoli post industriale dello “Shed” trovano posto anche numerosissimi fiori, arbusti, inflorescenze, rami, bacche, gemme, canne e tanti altri elementi naturali che la decorano, celebrandola nella sua sacralità involontaria.

Artista assai originale e raffinata, Chiara Camoni si confronta con l’imprevedibilità della materia, sviluppando il suo lavoro attraverso l’ibridazione della natura con il mito e del mito esternato nella natura stessa. Sono forme naturali a volte dimesse, trascurate, quasi materiali di scarto, che vengono utilizzati insieme ad una materia nobile come la ceramica per la realizzazione di oggetti, “divinità”, percorsi e ambienti, intrisi di un fascino sacrale. Ma non di sola “materia” si nutre la poetica di Chiara Camoni : sono infatti, qualche volta, anche la letteratura e la scrittura ad orientare una serie di opere, come nel caso della serie di disegni “Autoritratto” fortemente influenzati dagli scritti femministi di Carla Lonzi. La retrospettiva, il cui titolo piuttosto bizzarro è ispirato ad alcuni soggetti delle opere in mostra, propone, per molti aspetti, una visione mistica della realtà.

Due “Leonesse” adagiate a lato della porta di ingresso allo “Shed” accolgono il visitatore, con un chiaro riferimento alle porte di Micene. Le due sculture hanno una valenza decisamente architettonica, come anche altre opere, per esempio i “Tre serpenti”, realizzati tramite l’accostamento di ciotole di gres.

Di quale tempo mitico ci parla Chiara Camoni? Di nessun tempo e di tutti i tempi, poiché il mito e il sacro, sono per antonomasia senza tempo; altrettanto complesso è cercare di “spiegare” qualcuna delle opere di Chiara Camoni (sempre ammesso e non concesso che sia legittimo “spiegare” le opere). Sono certamente “Sisters” le opere più pregne di mistero, ma anche più “famigliari” forse per il loro assomigliare a divinità o sacerdotesse di culti universali. Si tratta di figure primordiali, generative, inginocchiate o sedute e illuminate da fioche luci di candele tenute in grembo, costruite con materiali umili come l’argilla essiccata e caratterizzate da un raccoglimento misterico. Alcune tengono in grembo oggetti di scarto, quasi reliquie del quotidiano, altre, come quella dal volto di lupa, sono inquietanti ed ascetiche e rimandano ad una archeologia immaginaria e al concetto di “sorellanza”, quasi un legame alternativo alla società patriarcale.

Sempre da un passato da archeologia dell’immaginario sembrano provenire una serie di pavimenti “site specific” dalle sfumature che vanno dal giallo-dorato al grigio-verdastro; i materiali sono quelli raccolti nelle passeggiate dell’artista nell’alta Versilia, luogo incantato che ha dato all’arte, di tutti i secoli, la materia primordiale, permettendo l’esistenza di tanti capolavori. Questi sono materiali di scarto trovati lungo le rive dei torrenti, ma la loro combinatoria sembra uscita dall’antro di una sibilla tanto è evocativa e poetica. Non originalissimo come idea, ma piuttosto efficace come realizzazione, ecco “Carrozzone” un’opera del 2021, uno strampalato veicolo che ricorda un teatro ambulante e che é una allusione alla tradizione italiana favolistica (come non pensare alla tradizione del carretto siciliano?).

Chiara Camoni ci racconta di un mondo antico, di un passato indistintamente archeologico che però mette al centro della narrazione la necessità del sacro e del suo legame ctonio con i luoghi: qualcosa di molto simile, se mi è concesso un paragone con un’opera cinematografica, a quello che racconta Alice Rorhwacher nel suo suggestivo film “La Chimera” (regista nata a Fiesole, quindi “Toscana profonda” anche per lei). Molto suggestiva “Casetta” e “Burning Sister” due opere in una: la prima una sorta di spoglia credenza che cela in sé un video, “Burning Sister” appunto, dove una delle cripto-divinità della Camoni, realizzata però con materiale vegetale, brucia al crepuscolo su una spiaggia greca lasciando una cenere densa che l’artista trasforma in smalto.

C’è sicuramente in questa performance anche una forte componente concettuale, ma non è certo questa la cifra stilistica predominante nell’artista. Un capitolo a sé stante nel percorso espositivo è dato dai vasi. Del resto che il vaso fosse importante ce lo ricordava già George Simmel con le sue considerazioni sull’ansa del vaso del 1905. E allora dedichiamoci ai vasi che Chiara Camoni modella a mano e realizza in grès. Non è una differenza da poco realizzare un vaso al tornio o realizzarlo a mano: è la mano che fa la differenza tra artigianato e arte, almeno in questa arte antica. I vasi esposti hanno un aspetto arcaico ed arcano, come quelli della serie del “Vasi Farfalla” (2020-2023) che richiamano alla mente i canopi egizi o semplicemente i vasi decorativi di tutte le epoche;spesso dai vasi dell’artista spuntano anche fiori secchi, piccoli arbusti che qualche volta ricordano ali di farfalla (da qui il titolo della serie). Ma l’apoteosi del vaso come contenitore di meraviglie, sorprese o memorie è in “Barricata#1”del 2016, un vero e proprio fronte di vasi che obbligano il visitatore a circumnavigare la barriera, costringendolo a guardare il vaso da ogni prospettiva e a prendere contatto con la sua poetica irregolarità.

Anche qui dai vasi spuntano i legittimi abitanti: fiori secchi, steli di erbe selvatiche, piccoli elementi naturali che fanno tutt’uno con il fascino riposto e profondo del contenitore. I colori sono spesso terrei, grigi, tortora, una gamma di cromie che sembra portare con sé una patina archeo-mitologica. Se ad accogliere il visitatore erano due leonesse a prendere congedo da lui, sono due cani, “Bruno e Tre”: si tratta di fusioni in alluminio color argento che si contrappongono nel loro atteggiamento domestico alle due leonesse dell’ingresso, ma la materia di cui sono fatti li allontana dalla quotidianità che invece era presente nei colori caldi della pietra leccese delle leonesse all’ingresso. C’è da restare meravigliati da questa immersione in una archeologia immaginaria e pur tuttavia così plausibile e reale.

In mezzo alle figure spesso inquietanti e agli oggetti qualche volta inquieti ci si sente stranamente come tra le mura di casa. Forse perché veniamo tutti da lì, dal tempo sospeso del Mito…

Condividi:

Facebook
WhatsApp
Telegram
Email
Twitter

Condividi l'articolo

© 2020-2024 La Voce di Novara - Riproduzione Riservata
Iscrizione al registro della stampa presso il Tribunale di Novara

Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

SEGUICI SUI SOCIAL

Sezioni