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«Il premierato? L’unica soluzione possibile per il nostro sistema costituzionale»

Il parere tecnico di Massimo Cavino, professore di Diritto costituzionale dell'Upo sulla riforma presentata dal Governo

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto definirla «la madre di tutte le riforme». Quella che – ritoccando quattro articoli della nostra Carta costituzionale – introdurrebbe l’elezione diretta dell’inquilino di Palazzo Chigi, dando maggiore stabilità all’esecutivo ed evitando cambi di maggioranza nel corso della legislatura. A fronte di un dibattito che in queste settimane ha ulteriormente radicalizzato le posizioni politiche tra i pro e i contro (con questi ultimi che vedono nella sua attuazione un indebolimento della figura del capo dello Stato) abbiamo chiesto un parere tecnico a Massimo Cavino, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università del Piemonte Orientale.

Una chiacchierata che ha affrontato tutti i temi che negli ultimi trent’anni hanno contraddistinto il passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica, includendo anche il regionalismo differenziato e la riforma della giustizia.

«Il progetto di riforma del premierato, credo sia l’unica soluzione possibile, non essendo nel nostro impianto costituzionale immaginabile il presidenzialismo – spiega Cavino –. Abbiamo una Costituzione costruita sulla centralità del Parlamento e pertanto consente unicamente soluzioni neo parlamentari. Ecco allora che quello che viene chiamato premierato è qualcosa di molto simile sperimentato con le Regioni, con una correzione: questa nuova formula presuppone con l’elezione del vertice dell’esecutivo la clausola simul stabunt vel simul cadent, per cui in caso di mancanza di un rapporto fiduciario cade sì l’esecutivo ma si deve sciogliere anche l’assemblea. Nella proposta di riforma presentata dal Governo questa clausola viene “raffreddata”, perché in caso di sfiducia o di dimissioni del presidente del Consiglio non c’é l’automatico scioglimento, ma subentra la possibilità da parte del Quirinale di affidare l’incarico a un altro esponente della stessa maggioranza».

Una riforma, come sostiene Meloni, che ha come obiettivo impedire ribaltoni, cioè il formarsi di maggioranze di diverso colore politico e, dopo una crisi, di governi tecnici.

«E bisogna aggiungere che per la prima volta viene indicata una formula elettorale nella Carta costituzionale, visto che deve essere individuata una maggioranza specifica alla coalizione che sostiene il presidente del Consiglio – prosegue Cavino -. Stando così le cose non ci dovrebbe neppure essere la necessità di ricorrere a un governo tecnico. Anche perché una clausola introdotta prevede che il nuovo capo del Governo sia un parlamentare, della stessa coalizione e con l’obbligo di proseguire ad applicare il programma presentato. Si tratterebbe di una grande innovazione».

Per il professore, però, nel corso dei dibattiti di queste settimane, alcuni aspetti non risulterebbero essere veri. Neppure da parte dei proponenti la riforma.

«Il ministro Casellati ha detto che non è vero che vengono toccati i poteri del presidente della Repubblica. In realtà non vengono toccate direttamente le norme costituzionali che disciplinano i suoi poteri, ma è inevitabile che una riforma di questo tipo incida in qualche modo – spiega ancora Cavino -. E’ evidente che la funzione del Quirinale verrebbe in qualche modo “compressa”, ma la domanda che ci possiamo porre è se sia davvero negativa una simile compressione. Questo alla luce del fatto che sono in molti a evidenziare come il capo dello Stato abbia avuto degli ultimi decenni una forte espansione dei suoi poteri, e non necessariamente fedele con lo spirito della Carta costituzionale. Non si può immaginare un presidente unicamente come un arbitro che interviene. Di per sé un suo ridimensionamento non è un aspetto negativo, ma una conseguenza della riforma».

E chi dice che questo modello sarebbe esistente solo in Italia? «Noi l’abbiamo sperimentata con le Regioni, poi c’è stato un tentativo in Israele di arrivare all’elezione diretta del Primo ministro ma non è stato accompagnato dall’elezione del Parlamento – aggiunge -. Una volta eletto il Premier israeliano si doveva cercare la fiducia in un’assemblea molto spesso frammentata. Quindi in una posizione molto debole. Per quello che questa formula è stata abbandonata».

Per Cavino il fatto che questa riforma venga etichettata come “modello italiano” non deve per forza essere ritenuta negativa: «Chi l’ha detto che si deve applicare un modello sperimentato altrove? La Quinta Repubblica francese ha di fatto “inventato” la co-abitazione e il semi-presidenzialismo. Per verificare la bontà di un assetto costituzionale bisogna verificare il contesto socio politico nel quale la riforma si sviluppa. La vera questione non è se in Italia andrebbe bene oppure no. Per come è costruita la nostra Costituzione credo invece che il presidenzialismo invocato da qualcuno sino a qualche mese fa non sia praticabile. Si può arrivare a un buon compromesso di stabilità di Governo ma di mantenimento della centralità del Parlamento con una formula di questo tipo. Camera e Senato non vengono assolutamente “commissariati”, possono esprimere la sfiducia, purché la legislatura continui con la stessa maggioranza e con lo stesso programma. Perché questo succeda ci dovranno poi essere delle riforme a livello parlamentare; dovranno essere modificati i regolamenti di Montecitorio e Palazzo Madama. Dovrà essere chiaro chi è maggioranza e chi opposizione. E inoltre dovrà essere indicato anche uno “statuto della minoranza”, definendo i suoi poteri».

Dunque dovremo giungere anche noi ad avere, come nella Camera dei Comuni britannica, un leader dell’opposizione? «Precisamente, è inevitabile che sia così. Se il Parlamento si struttura in modo da avere una maggioranza definita, inevitabilmente ci deve essere il riconoscimento dell’opposizione. Ci sono delle implicazioni che non si risolvono negli articoli della Costituzione che vengono toccati. E non viene neppure introdotto il vincolo di mandato, a sottolineare la centralità del Parlamento e del singolo parlamentare, che può liberamente decidere di votare oppure no. Ma nella sostanza – conclude il professore – trovo che questa potrebbe essere una riforma utile per il nostro Paese. Una riforma che lascia inalterata la centralità del Parlamento, declinandola in modo più adeguato alla stabilità dei governi».

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Luca Mattioli

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