Casaleggio

Ho il Covid e non mi vergogno

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Dieci giorni fa, dopo che mio padre è stato ricoverato in ospedale con una polmonite bilaterale da Covid, ho iniziato ad avere febbre, tosse, emicrania fortissima e a non percepire più gli odori e i sapori. Ieri mattina il tampone con l’inevitabile diagnosi: positiva al Coronavirus, dunque quarantena, test di controllo e tutto quello che ne consegue. Non che la mia salute e quella della mia famiglia possa essere di qualche interesse (se non agli amici o ai colleghi che nei giorni scorsi hanno dovuto sostituirmi) ma ne parlo perché credo che le riflessioni successive possano riguardarci tutti.

Nelle nove ore che hanno separato il momento in cui mio padre, 84 anni, vedovo da poco più di due mesi, è stato caricato dal suo letto all’ambulanza per essere portato in pronto soccorso, alla telefonata che ho ricevuto da un medico gentilissimo dell’ospedale il quale mi informava della situazione critica, ho provato a immaginare quello che gli operatori sanitari a vari livelli vivono ormai da mesi e che i pazienti devono sopportare ammassati nelle sale d’aspetto senza poter avere vicino nessun famigliare a supporto.

Dal giorno dopo ho cominciato a ricevere una telefonata quotidiana da parte di quei medici bardati fino ai denti che stanno curando mio padre fisicamente e psicologicamente, anche ora che la situazione si è aggravata ed è stato trasferito in terapia subintensiva. E lo fanno per tutti i pazienti che, come lui, spaventati e disorientati, con il casco per il Covid giorno e notte, non sono in grado di fare autonomamente una chiamata o, quando ci provano, non riescono a emettere alcun suono; l’unico rumore è quello assordante della Cpap che soffia una quantità di ossigeno inimmaginabile.

Una situazione di ansia continua da reggere insieme alla comparsa di sgradevoli sintomi tipici del Covid, comunque gestibili da casa grazie a un po’ di fortuna e a un medico di base serio e avveduto che mi ha seguita da lontano ma senza mai far mancare il proprio supporto.

Tutto questo, di fronte alla sconvolgente posizione dei negazionisti o al contrario, a chi cerca di additarti come un untore colpevole di aver contratto e diffuso il virus, fa quantomeno infuriare. Sì infuriare, imbestialire, come preferite, ma che rendono lo stato d’animo di chi, come me, si è trovato o si trova a vivere un momento di grande difficoltà.

Il Covid è una malattia subdola e silenziosa, che compare da un giorno all’altro, a cui non importa se hai 26 o 66 anni: o sei fortunato come me, oppure se ti sceglie accuratamente si insinua senza pietà. Solo che molte persone, troppe, non vogliono vedere o forse non si rendono conto finché non provano da vicino. E chi, a suo tempo, avrebbe dovuto prendere decisioni e farsi carico di responsabilità, invece non l’ha fatto e ora il limite dell’impensabile è stato ampiamente sfondato. Possibile che i morti di marzo e aprile non siano serviti a niente? Che i turni massacranti dei sanitari debbano ancora essere argomento di cronaca? Che gli ospedali abbiano dovuto interrompere tutte le attività a discapito di chi continua ad ammalarsi di altro? Che non ci sia una regia capace di decidere cosa devono fare Asl, Sisp, Usca, medici di base? Che l’economia sia sconvolta insieme a tutte quelle persone obbligate a non lavorare e che non hanno ancora ricevuto la cassa integrazione della prima pandemia e che forse non la riceveranno mai? Che ci sia gente “insospettabile” costretta a fare la coda alla Caritas per la borsa della spesa?

Non è andato tutto bene e non siamo diventati migliori, anzi. Non abbiamo imparato proprio niente e la serietà dei governanti continua a essere ampiamente appannata dalle arroccate posizioni politiche di cui il Covid, come qualunque altra sciagura, notoriamente se ne frega.

Rubo le parole che il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, ha scritto qualche settimana fa dalla terapia intensiva: «La pandemia sta accorciando ancora una volta il respiro della nostra democrazia. Provare a impedirglielo tocca solo a noi. Scambiando la rinuncia di oggi con il riscatto di domani. Ma per poterci riuscire abbiamo bisogno che governo, regioni, autorità sanitarie e scientifiche si muovano come un “corpo” unico e visibile, un dispositivo coerente e credibile di atti, norme, parole. Non lo stanno facendo».

No, infatti, nessuno lo sta facendo ed è per questo che ci sentiamo ancora più soli e smarriti in questa seconda ondata di pandemia. Che però deve essere per forza l’ultima: non c’è più spazio per altri sbagli e tutti dobbiamo esserne consapevoli. In attesa di un vaccino degno di essere tale.

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Cecilia Colli

Novarese, giornalista professionista, ha lavorato per settimanali e tv. A La Voce di Novara ha il ruolo di direttore

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