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L’umanità in cammino

Tra tutti i percorsi narrativi che si intrecciano nel film, in questo tempo pasquale, la cui essenza riflette la finitezza e i limiti dell’uomo e il senso da assegnare loro, vorrei soffermarmi su uno in particolare, che trascende il tempo storico...

Molto difficilmente Rolland Joffé sarà ricordato come un maestro nella storia del cinema, però a distanza di quarant’anni i suoi primi due film continuano a sollecitarci e a suscitare riflessioni che ci aiutano a comprendere il nostro tempo. Il secondo in particolare, The Mission, uscito nelle sale nel 1986, intreccia numerosi percorsi narrativi, che riecheggiano questioni cruciali ancora oggi.

La storia è abbastanza nota. Siamo a metà del XVIII secolo nelle regioni sudamericane situate tra le attuali Argentina, Brasile e, soprattutto, Paraguay, nelle quali, con l’autorizzazione del re spagnolo Filippo III, la Compagnia di Gesù aveva dato vita all’esperimento delle Reducciones, comunità autonome composte da famiglie appartenenti soprattutto al popolo guaranì, che sotto la guida dei padri gesuiti, unici bianchi ammessi a farne parte, si erano date una propria organizzazione sociale, raggiungendo l’autosufficienza economica. Il racconto di Joffé – bisogna, però, tener presente che la ricostruzione filmica si allontana in più punti dalla rigorosa ricostruzione storica, mescolando avvenimenti avvenuti in periodi diversi, oltre a inserire nella trama della narrazione fatti e personaggi di invenzione, ricalcando, dunque, il modello del romanzo storico piuttosto che quello della trasposizione cinematografica di avvenimenti realmente accaduti – si dipana dal momento in cui il cardinale Altamirano, un intenso e misurato Ray McAnally, viene inviato dal Papa per decidere se continuare far valere la protezione della Chiesa sulle missioni o lasciarne il destino agli accordi intercorsi tra Spagna e Portogallo sui territori su cui sorgono, entrambe decise a por fine all’esperimento, che ostacolava sotto diversi rispetti i piani di conquista e di sfruttamento dei due stati.

Tra tutti i percorsi narrativi che si intrecciano nel film, in questo tempo pasquale, la cui essenza riflette la finitezza e i limiti dell’uomo e il senso da assegnare loro, vorrei soffermarmi su uno in particolare, che trascende il tempo storico, toccando una dimensione profondamente connessa alla condizione umana e che, per tale motivo, continua ad affacciarsi sul nostro cammino. Dopo che il cardinale, combattuto tra la sua coscienza e gli imperativi della politica europea, ha ordinato ai padri gesuiti di lasciare le missioni, ingiungendo loro di convincere i nativi a fare altrettanto, tornando a vivere nella giungla, e i guaranì si sono rifiutati di accondiscendere alla richiesta, disponendosi a difendere la propria terra, la propria organizzazione sociale, il diritto di decidere per se stessi, i padri gesuiti scelgono senza nessuna incertezza di essere leali con chi si era fidato di loro, rifiutandosi di abbandonarli al loro destino. Ma scelgono modi diversi di mostrare la propria lealtà: Rodrigo Mendoza, uno strepitoso Robert De Niro, e gli altri padri decidono di prepararsi a combattere a fianco dei guaranì, padre Gabriel, un ispirato e commovente Jeremy Irons, li accusa con veemenza di tradire la loro missione. Ma nello sguardo di padre Gabriel si riflette tutto l’orrore dell’impotenza di non poter opporre altre soluzioni che non siano accettare la violenza del sopruso.

In una scena successiva, il centro forse del film, i due protagonisti si confrontano sulle rispettive scelte. Il loro, però, non è un dialogo, piuttosto un monologo di un ormai pacificato padre Gabriel. Davanti a Mendoza che, prima di iniziare il combattimento, gli chiede comunque di benedire la sua scelta, gli risponde che lui non ha il potere di benedirlo: «Se sei nel giusto hai già la benedizione di Dio, se hai torto la mia benedizione non servirebbe a nulla. Se è la forza che crea il diritto, l’amore non ha posto in questo mondo». Per proseguire: «E forse è così, forse è così, e io non ho la forza di vivere in mondo come questo, Rodrigo. Non posso benedirti». Poi i due si abbracciano e, mentre Rodrigo sta uscendo dalla stanza, padre Gabriel si sfila dal collo la cordicella che regge la croce e gliela consegna. Poi si avvia verso un altare preparato sul sagrato della Chiesa e, dopo aver impugnato l’ostensorio, si mette alla testa dei fedeli in processione che pregando vanno incontro ai proiettili dei soldati spagnoli. Anche Rodrigo morirà, colpito mentre sta tornando alla sua postazione, abbandonata nel momento cruciale per salvare un bambino ferito da una fucilata.

Una sequenza densissima, che riflette con rara potenza la tensione ineliminabile tra l’aspirazione all’assoluto e i limiti della condizione umana. Ma padre Gabriel non è un velleitario, né un opportunista: capisce drammaticamente che rifiutare di usare la violenza anche in condizioni estreme significa consegnarsi inerme alla violenza altrui. Alla violenza di un mondo dove non c’è posto per l’amore. È quindi egli stesso a consegnarsi alla violenza spagnola; non gli passa certo per la testa di accusare i guaranì per lo stato di guerra, pontificando che le violenze spagnole cesserebbero all’istante se solo si decidessero a rinunciare a combattere e a piegarsi al volere dei prepotenti, o di sentirsi investito del potere di giudicare sprezzantemente la scelta di Rodrigo. Così come Rodrigo non è un violento fine a se stesso, ma si vede costretto a usare le armi per opporsi alla violenza di chi calpesta i diritti di un popolo, tanto che non esita un secondo a mettere a rischio la strategia difensiva dell’improvvisato e improbabile esercito per salvare un bambino, pagando questo suo gesto con la vita.

Una lezione da meditare, nel giorno in cui il racconto dei Vangeli ci rende partecipi di una possibile speranza di superare questa tensione costitutiva, ma ci ricorda, anche, che ciò non potrà mai avvenire su questa terra.

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Giovanni A. Cerutti

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