C’è un filo che lega molti degli episodi che, in questi mesi, ho raccontato da cronista e da cittadino: le piazze gremite per Gaza, le voci che chiedono giustizia, le tensioni crescenti, e dall’altro lato l’aggressività scomposta di gruppi neofascisti, che a Novara non hanno esitato a far sentire la loro presenza con toni e modi inaccettabili.
Quel filo oggi si intreccia con qualcosa che, in apparenza, sembra lontano, ma che in realtà appartiene alla stessa trama: l’assalto da parte dei pro Palestina alla sede de La Stampa di Torino, frutto di un altro estremismo, di un’altra rabbia che non conosce misura e che trasforma il dissenso in intimidazione. Mi trovo, ancora una volta, a difendere il lavoro dei colleghi, ma soprattutto a riflettere sul senso profondo del mestiere che facciamo: non solo raccontare ciò che accade, ma fare i conti con la fragilità della democrazia quando le passioni collettive diventano cieche e cedono il passo alla rabbia e alla violenza.
Il giornalismo, nelle sue forme migliori, nasce da una disponibilità all’ascolto e alla complessità. È un esercizio di esposizione: si espone chi scrive, perché diventa bersaglio di chi non tollera lo specchio della realtà, ma si espone anche la società, che deve guardarsi dentro attraverso quello specchio. Eppure, proprio quando le cause sono più urgenti, la pace, la giustizia, i diritti umani, la dignità dei popoli, è paradossale che queste vengano oscurate da chi, anziché difenderle con la forza delle idee, le tradisce con la violenza. La violenza non porta luce: getta ombra. Oscura le ragioni, spegne le domande, appanna il quadro, e dà un alibi a chi vorrebbe non ascoltare.
Chi scaglia una pietra contro una redazione non difende nessuna causa: la sottrae allo spazio pubblico, la consegna al sospetto, la priva della credibilità necessaria per essere compresa. In questi mesi ho camminato nelle piazze dove si chiedeva la fine dei bombardamenti e la tutela dei più vulnerabili, ho visto persone che protestavano con compostezza e dolore sincero. E ho visto, dall’altra parte, l’arroganza di chi si richiama a un passato nero e intimidisce chi informa. Oggi mi trovo davanti all’ennesima deviazione: un’altra frangia che confonde la lotta con l’imposizione, la giustizia con la vendetta, l’impegno con la sopraffazione.
La verità, però, è semplice: nessuna causa è servita dall’odio. La libertà d’informazione non è un trofeo di una parte, ma il terreno comune su cui tutte le parti, anche quelle tra loro inconciliabili, devono potersi muovere. Difendere le redazioni significa difendere la possibilità stessa di discutere, dissentire, evolvere. Senza questo, la società non respira: trattiene il fiato, si tende, si irrigidisce. E alla fine esplode.
Il nostro mestiere rimane, allora, un atto di cura fragile ma necessario: tenere accesa una luce quando qualcuno prova a spegnerla, raccontare anche quando non conviene, quando fa paura, quando si vorrebbe smettere. Non per eroismo, ma per responsabilità: perché una democrazia senza giornalismo non è una democrazia, ma un racconto interrotto.
E oggi, davanti all’ennesimo assalto contro chi informa, il mio pensiero va ai colleghi e alle colleghe di Torino, ma anche alle cause nobili che rischiano di essere soffocate dagli eccessi di chi dice di difenderle, a tutte quelle persone che sono scese in piazza pacificamente a urlare “Palestina libera”. A noi resta il compito difficile, imperfetto, ma insostituibile di continuare a raccontare, senza cedere alla paura né alla tentazione di sceglierci un pubblico più comodo.




