«Se muoio qui, sia per esecuzione o per malattia, le autorità che sono state negligenti e neutrali sulla mia situazione in tutti questi anni, e che mi hanno abbandonato quando potevano riportarmi a casa, sono anche responsabili della mia morte».
È il messaggio che Ahmadreza Djalali, medico e ricercatore esperto di medicina dei disastri, ricercatore dell’Università del Piemonte Orientale, ha diffuso il 24 aprile di quest’anno, nel nono anniversario del suo arresto.
Oggi sono passati più di 3.500 giorni da quando è stato prelevato da agenti dell’intelligence iraniana e accusato di “corruzione sulla terra”, una formula del codice penale islamico che identifica crimini considerati una minaccia all’esistenza stessa della Repubblica islamica. Nel suo caso l’accusa – secondo il governo iraniano – era quella di spionaggio per Israele: una tesi mai supportata da prove credibili e smentita da istituzioni internazionali, premi Nobel, governi europei e dalla comunità accademica mondiale.
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Eppure Ahmadreza è ancora lì. E non perché siano mancate le occasioni per riportarlo a casa. In questi nove anni almeno due momenti chiave avrebbero potuto, e dovuto, rappresentare una svolta.Sono due casi che riguardano funzionari iraniani arrestati in Europa, nei quali il nome di Djalali è stato esplicitamente usato e minacciato dal governo di Teheran, e che hanno generato aspettative dolorosamente disattese.
Nel 2018 la Germania ha arrestato Assadollah Assadi, diplomatico iraniano accreditato a Vienna e identificato come agente dell’intelligence. L’accusa contro Assadi era di aver organizzato un attentato con esplosivo TATP – il composto detonante artigianale utilizzato in numerosi attacchi terroristici dello scorso decennio in tutta Europa – in occasione di un raduno dell’opposizione iraniana nei pressi di Parigi. È stato un quella occasione che Assadi era stato estradato in Belgio, processato e condannato a vent’anni di carcere per terrorismo internazionale.
Quella che avrebbe potuto essere un’opportunità per liberare il ricercatore di Novara si è trasformata in una serie di aspettative dolorosamente disattese per la famiglia di Ahmad. E in delle inutili e crudeli torture psicologiche e fisiche nei suoi confronti: a novembre del 2020, Djalali è stato rinchiuso in una cella di isolamento di tre metri quadrati, senza nemmeno un letto, con le luci accese a ogni ora del giorno e della notte (strategia deliberata per infliggere “distress psicologico”, usando la privazione del sonno come metodo di tortura per generare disorganizzazione cognitiva, paranoia e allucinazioni).
La sua vita è diventata un contatore emotivo, un’arma per spingere Bruxelles ad accelerare lo scambio.
Alla fine, nel gennaio 2023, Assadi è stato rilasciato in uno scambio tra Belgio e Iran. Ahmadreza, invece, è stato lasciato dove si trova ancora adesso. Senza alcuna spiegazione.
L’altra grande occasione mancata è legata a Hamid Nouri, ex funzionario giudiziario iraniano arrestato in Svezia nel 2019 e condannato all’ergastolo per crimini di guerra, coinvolto nell’esecuzione di massa di migliaia di detenuti durante il massacro del 1988 nelle prigioni iraniane. Una storia che verrà approfondita nel secondo episodio di “Non succede mai niente” disponibile dal 25 novembre su tutte le piattaforme di streaming audio.
Anche in questo caso, durante il lungo processo svedese, il nome di Djalali è stato usato dal regime come moneta di scambio: si insinuava apertamente che il destino del ricercatore potesse dipendere dall’esito dei negoziati sul caso Nouri. Nel giugno 2024, la Svezia ha accettato uno scambio: Nouri è tornato in Iran, mentre due cittadini svedesi detenuti sono stati liberati. Ahmadreza no, ancora una volta, resta indietro.
«In entrambi i casi sono stato usato come merce di scambio, ma crudelmente e arbitrariamente abbandonato», aveva affermato lo stesso Ahmadreza in un messaggio vocale rilasciato dal carcere di Evin.
«Nove anni trascorsi in condizioni così disumane mi hanno causato vari problemi di salute, come insufficienza cardiaca, gastrite e disturbi intestinali, calcoli biliari, grave perdita di peso, problemi alla vista, forti e persistenti mal di testa, perdita dei denti, problemi alla pelle e debolezza generale».
Rendere Ahmadreza più fragile e in difficoltà rappresenta per il governo iraniano un enorme vantaggio: lo rende ancora più “spendibile”, ancora più prezioso come merce di scambio nei negoziati internazionali.
Ma accettare che l’Iran possa giocare con il destino di un uomo innocente – costringendo famigliari e amici ad addormentarsi ogni notte con la paura di ricevere la comunicazione della sua morte – e farlo nel nostro totale silenzio, significa diventare parte di questa vicenda drammatica e straziante.




