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In un mondo a prova di click comunicare per slogan ha assunto un ruolo evidente e preminente persino in ambito politico e istituzionale; niente di strano dunque, se anche il lungo e faticoso cammino delle donne per la conquista di diritti e libertà, e di una parità di genere che ancora ha tanti passi da compiere, abbia fatto tappa sul palco di Sanremo, ridotto a due parole ricamate su una stola indossata dall’imprenditrice digitale Chiara Ferragni.

Funziona così: per intercettare i like della massa bisogna pensare rapidamente, coniare un motto sintetico e accattivante e soprattutto mostrarsi e mostrare, perché il vuoto di parole andrà pur riempito, non importa se con banalità che non significano nulla.

Io rimango fedele alla lettura e alla scrittura, a un discorso che si faccia memoria, idee e sapere. Leggere un testo non è solo affrontare un capitolo di storia culturale, può anche aiutare un essere umano ad acquisire consapevolezza e ad autodefinirsi; e se percorriamo i versi in cui è una donna a dire ‘io’, ci accorgiamo che emerge una visione della propria identità complessa e articolata, pienamente adeguata a costruire una soggettività femminile esente da stereotipi. In ogni tempo e contesto.

La donna è un soggetto desiderante, fin dall’universo trobadorico in cui l’amore era ‘da lontano’ e la figura femminile un idolo muto. La contessa Beatriz de Dia esprime un eros tutt’altro che elementare, in cui l’allusione al piacere dei sensi è espresso senza reticenze attraverso una rappresentazione franca e concreta, trasgredendo l’obbligo cortese della discrezione e l’idea di una dama inaccessibile e oggetto del servizio d’amore:

“Il mio cavaliere io vorrei / averlo una sera tra le mie braccia nude, /che certo ne sarebbe beato e felice / solo ch’io gli facessi da cuscino, perché sono folle di lui […]

Bell’amico, gentile e valoroso, / quando sarete in mio potere / e saremo distesi l’uno accanto all’altro, / a portata dei miei baci amorosi, / colma di gran gioia, / io vi considererò come mio marito / così che voi non potrete rifiutarvi / di fare solamente ciò che desidero”.

La donna non si è mai accontentata di essere solo una musa, ma ha preferito essere autrice, esprimere una passione o un dolore ardente e aspirare alla fama:

“Voi, ch’ascoltate in queste meste rime, / in questi mesti, in questi oscuri accenti / il suon degli amorosi miei lamenti […] / ove fia chi valor apprezzi e stime, / gloria, non che perdon, de’ miei lamenti / spero trovar fra le ben nate genti”.

Gaspara Stampa si ispira nel ‘500 a Petrarca, ma è lei a cantare, non una figura idealizzata, bensì un amante con cui intrattiene una relazione complessa e difficile: lascia intuire il vanto di aver vissuto un’esperienza straordinaria, da cui spera di ricavare una speranza di gloria, rovesciando così l’iniziale mestizia nella consapevolezza di sé e nella dignità della propria poesia.

Ci sarebbe ancora tanto da dire sul corpo delle donne, proprio nell’epoca in cui l’immagine si fa interlocutrice principale e uno scenario di spettacolarizzazione lo usa troppo spesso per generare un modello attraente e vendibile.

Per invitare le donne a disporre di sé in tutta libertà, Chiara Ferragni si è presentata a Sanremo insaccata in un abito nude look che ha suscitato una valanga di critiche, proprio da parte di quelle donne che avrebbe voluto emancipare, ma che probabilmente vedono da tempo nel corpo dell’imprenditrice solo una bacheca pubblicitaria, e si domandano se sia veramente libera una perennemente esibita ai suoi follower, schiava dei marchi e dei fatturati, del controllo dei like in tempo reale, dove anche la beneficenza e la campagna umanitaria sanno di fasullo.

Ci vuole un altro stile per esibire liberamente il proprio corpo e la propria sensualità; nel 1929 Antonia Pozzi scriveva al suo amato professore che ‘è terribile essere una donna, ed avere 17 anni. Dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi’.

Ecco come sente l’esigenza di essere riconosciuta e si offre alla sguardo, in un ritratto in bianco e azzurro che toglie ogni volgarità all’erotismo marcato:

“Guardami: sono nuda. Dall’inquieto / languore della mia capigliatura / alla tensione snella del mio piede, / io sono tutta una magrezza acerba / inguainata in un color d’avorio.
Guarda: pallida è la carne mia. / Si direbbe che il sangue non vi scorra. / Rosso non ne traspare. Solo un languido / palpito azzurro sfuma in mezzo al petto. / Vedi come incavato ho il ventre. Incerta / è la curva dei fianchi, ma i ginocchi / e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue. / Oggi, m’inarco nuda, nel nitore / del bagno bianco e m’inarcherò nuda / domani sopra un letto, se qualcuno / mi prenderà. E un giorno nuda, sola, / stesa supina sotto troppa terra, / starò, quando la morte avrà chiamato”.

La poetessa vuole farsi vedere giovane, agile, vigorosa, e anche nella fragilità non solo della sua magrezza acerba, ma del suo bisogno d’amore.

Delicata e bianca, nel presagio di un destino di solitudine e morte precoce, si espone e si slancia, nonostante i pericoli dell’esposizione.

Una donna consapevole, per la conquista di un posto nel mondo.

(Immagine. Egon Schiele, Nudo di donna, 1910)

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Claudia Cominoli

Claudia Cominoli

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