La primavera seduce i novaresi con un albero, un ciliegio giapponese che in questi giorni è rigogliosamente fiorito in un giardino e da sempre è meta di un pellegrinaggio, una sorta di rito collettivo di fascinazione: il nostro hanami. Quasi nelle stesse ore lo street artist Banksy... Dalla rubrica "Vivere di un consumato amore" tra letteratura e natura

La primavera seduce i novaresi con un albero, un ciliegio giapponese che in questi giorni è rigogliosamente fiorito in un giardino e da sempre è meta di un pellegrinaggio, una sorta di rito collettivo di fascinazione: il nostro hanami.

Quasi nelle stesse ore lo street artist Banksy rivitalizzava una pianta capitozzata del Finsbury Park a Londra, con una colata di vernice verde gettata sulla parete di un palazzo adiacente: il murale, giocando sull’illusione ottica, invita a prenderci cura della natura in difficoltà.

Tanto mi basta per andare con la mente all’inizio di tutto, ‘Genesi’2,9: “Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male”.

La presenza degli alberi nei racconti di creazione ne testimonia la necessità: simboli di vita in evoluzione, ma anche di fecondità.

E’ in un’altra narrazione fondativa della nostra tradizione culturale e letteraria che un marito, tornato in patria e dalla moglie dopo una lontananza durata 20 anni, ci mostra in un ulivo il segreto del letto e della concordia tra due sposi, profonda e fertile come l’albero stesso:

“Ed ecco Odisseo si volse alla sua donna fedele: Chi l’ha spostato il mio letto? Tra gli uomini, no, nessun vivente, neanche in pieno vigore, senza fatica lo sposterebbe, perché c’è un grande segreto nel letto ben fatto, che io fabbricai, e nessun altro. C’era un tronco ricco di fronde, d’olivo, dentro il cortile, florido, rigoglioso; era grosso come colonna:
intorno a questo murai la stanza […] E poi troncai la chioma dell’olivo fronzuto, e il fusto sul piede sgrossai, lo squadrai con il bronzo bene e con arte, lo feci dritto a livella, ne lavorai un sostegno e tutto lo trivellai con il trapano. Così, cominciando da questo, polivo il letto, finché lo finii, ornandolo d’oro, d’argento e d’avorio”.

L’albero della terra greca, sacro alla dea Atena, con i suoi frutti rendeva fiorente l’economia e ancora oggi è un attore economico di spicco: genera occupazione e rappresenta il sostentamento di vaste aree del bacino del Mediterraneo.

Molto prima che d’Annunzio esaltasse l’esperienza panica sua e di Ermione i cui ‘volti silvani’, ebbri di pioggia, sembrano trasformarsi in ‘scorza virente’, il dio Apollo aveva assistito impotente alla metamorfosi di Dafne in alloro: “Un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae”.

Ovidio e Bernini hanno scolpito nel nostro immaginario non soltanto un mito, ma una sensibilità per cui non sono gli uomini a incidere sulla natura e a trasformarla, ma chiedono di fondersi con l’elemento naturale per pietà, desiderio o ricompensa.

Imparare gli alberi da poeti e scrittori ci consente di cambiare lo sguardo, di osservarli da una prospettiva inconsueta e paradossale, di scorcio come direbbe Calvino, che tra gli alberi ha ambientato una delle sue opere più conosciute.

Il barone Cosimo Piovasco di Rondò non è solo un adolescente ribelle che, per un capriccio ostinato, sale su una pianta e da lì non discende più per il resto della sua vita; la sua scelta rende possibile la sua crescita, il rifiuto delle regole non porta all’isolamento, ma ad una vita piena di contatti ed eventi, alla necessità del confronto.

“Gli olivi, per il loro andar torcendosi, sono a Cosimo vie comode e piane, piante pazienti e amiche, nella ruvida scorza, per passarci e per fermarcisi […]. Cosimo stava volentieri tra le ondulate foglie dei lecci […] e ne amava la screpolata corteccia […]. Era il mondo ormai a essergli diverso, fatto di stretti e ricurvi ponti nel vuoto, di nodi o scaglie o rughe che irruvidiscono le scorze, di luci che variano il loro verde a seconda del velario di foglie più fitte o più rade […]. Mentre il nostro, di mondo, s’appiattiva là in fondo e noi avevamo figure sproporzionate e certo nulla capivamo di quel che lui lassù sapeva”.

Gelsi, fichi, noci, lecci, platani, olmi, faggi, querce, pini e castagni offrono al barone rampante rifugio, cibo, svago, nicchie per i suoi libri e un locus amoenus per i suoi amori, ma soprattutto una prospettiva anticonformista sulle persone e sul mondo.

La voce narrante del romanzo, quella del fratello Biagio, si rammarica che dopo la morte di Cosimo “non si riconoscono più, queste contrade. S’è cominciato a tagliare boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pareva una cosa della guerra, di quei tempi: invece non si smise più. I dossi sono nudi che a guardarli, noi che li conoscevamo da prima, fa impressione”.

Inutile ricordare che le piante nel nostro ecosistema e per la nostra sopravvivenza sono necessarie: portano cibo che nutre e l’ossigeno che respiriamo. Ce lo dice, poeticamente, il chimico Primo Levi, che è stato anche un fine scrittore, in un racconto intitolato ‘Carbonio’: “L’atomo fu condotto dal vento, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di esservi inchiodato da un raggio di sole; questo fulmineo lavoro a tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, è stato inventato dalle nostre sorelle silenziose, le piante, la cui temperatura è identica a quella dell’ambiente in cui vivono”.

Gli alberi raffreddano l’ambiente, un effetto che in un periodo di riscaldamento globale non è secondario per decidere di rendere le nostre città più verdi. Se provassimo non soltanto a comprendere i motivi scientifici della scelta, ma anche a superare una forte barriera culturale sulla nostra idea di città, allora forse non sarebbe un’utopia ‘Fitopolis’, la città vivente prospettata da Stefano Mancuso: un fiume di piante che entra nei nostri spazi urbani, sottrae le strade alle macchine e le restituisce alle persone, alla salute e all’estetica.

Semi, rami e radici permeano il nostro linguaggio in senso figurato, per indicare le origini, lo sviluppo, la stabilità, l’appartenenza; il termine libro deriva dal latino ‘liber’, la parte più cedevole e interna della corteccia: alberi e libri forniscono linfa vitale.

Leggere un libro e piantare un albero non sono un gesto inutile, bensì un atto nobile, e poetico.

(Immagine: Banksy, murale a Finsbury Park. Londra)

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Claudia Cominoli

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La primavera seduce i novaresi con un albero, un ciliegio giapponese che in questi giorni è rigogliosamente fiorito in un giardino e da sempre è meta di un pellegrinaggio, una sorta di rito collettivo di fascinazione: il nostro hanami. Quasi nelle stesse ore lo street artist Banksy…
Dalla rubrica “Vivere di un consumato amore” tra letteratura e natura

La primavera seduce i novaresi con un albero, un ciliegio giapponese che in questi giorni è rigogliosamente fiorito in un giardino e da sempre è meta di un pellegrinaggio, una sorta di rito collettivo di fascinazione: il nostro hanami.

Quasi nelle stesse ore lo street artist Banksy rivitalizzava una pianta capitozzata del Finsbury Park a Londra, con una colata di vernice verde gettata sulla parete di un palazzo adiacente: il murale, giocando sull’illusione ottica, invita a prenderci cura della natura in difficoltà.

Tanto mi basta per andare con la mente all’inizio di tutto, ‘Genesi’2,9: “Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male”.

La presenza degli alberi nei racconti di creazione ne testimonia la necessità: simboli di vita in evoluzione, ma anche di fecondità.

E’ in un’altra narrazione fondativa della nostra tradizione culturale e letteraria che un marito, tornato in patria e dalla moglie dopo una lontananza durata 20 anni, ci mostra in un ulivo il segreto del letto e della concordia tra due sposi, profonda e fertile come l’albero stesso:

“Ed ecco Odisseo si volse alla sua donna fedele: Chi l'ha spostato il mio letto? Tra gli uomini, no, nessun vivente, neanche in pieno vigore, senza fatica lo sposterebbe, perché c'è un grande segreto nel letto ben fatto, che io fabbricai, e nessun altro. C’era un tronco ricco di fronde, d’olivo, dentro il cortile, florido, rigoglioso; era grosso come colonna:
intorno a questo murai la stanza […] E poi troncai la chioma dell'olivo fronzuto, e il fusto sul piede sgrossai, lo squadrai con il bronzo bene e con arte, lo feci dritto a livella, ne lavorai un sostegno e tutto lo trivellai con il trapano. Così, cominciando da questo, polivo il letto, finché lo finii, ornandolo d’oro, d’argento e d’avorio”.

L’albero della terra greca, sacro alla dea Atena, con i suoi frutti rendeva fiorente l’economia e ancora oggi è un attore economico di spicco: genera occupazione e rappresenta il sostentamento di vaste aree del bacino del Mediterraneo.

Molto prima che d’Annunzio esaltasse l’esperienza panica sua e di Ermione i cui ‘volti silvani’, ebbri di pioggia, sembrano trasformarsi in ‘scorza virente’, il dio Apollo aveva assistito impotente alla metamorfosi di Dafne in alloro: “Un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae”.

Ovidio e Bernini hanno scolpito nel nostro immaginario non soltanto un mito, ma una sensibilità per cui non sono gli uomini a incidere sulla natura e a trasformarla, ma chiedono di fondersi con l’elemento naturale per pietà, desiderio o ricompensa.

Imparare gli alberi da poeti e scrittori ci consente di cambiare lo sguardo, di osservarli da una prospettiva inconsueta e paradossale, di scorcio come direbbe Calvino, che tra gli alberi ha ambientato una delle sue opere più conosciute.

Il barone Cosimo Piovasco di Rondò non è solo un adolescente ribelle che, per un capriccio ostinato, sale su una pianta e da lì non discende più per il resto della sua vita; la sua scelta rende possibile la sua crescita, il rifiuto delle regole non porta all’isolamento, ma ad una vita piena di contatti ed eventi, alla necessità del confronto.

“Gli olivi, per il loro andar torcendosi, sono a Cosimo vie comode e piane, piante pazienti e amiche, nella ruvida scorza, per passarci e per fermarcisi […]. Cosimo stava volentieri tra le ondulate foglie dei lecci [...] e ne amava la screpolata corteccia […]. Era il mondo ormai a essergli diverso, fatto di stretti e ricurvi ponti nel vuoto, di nodi o scaglie o rughe che irruvidiscono le scorze, di luci che variano il loro verde a seconda del velario di foglie più fitte o più rade [...]. Mentre il nostro, di mondo, s’appiattiva là in fondo e noi avevamo figure sproporzionate e certo nulla capivamo di quel che lui lassù sapeva”.

Gelsi, fichi, noci, lecci, platani, olmi, faggi, querce, pini e castagni offrono al barone rampante rifugio, cibo, svago, nicchie per i suoi libri e un locus amoenus per i suoi amori, ma soprattutto una prospettiva anticonformista sulle persone e sul mondo.

La voce narrante del romanzo, quella del fratello Biagio, si rammarica che dopo la morte di Cosimo “non si riconoscono più, queste contrade. S’è cominciato a tagliare boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pareva una cosa della guerra, di quei tempi: invece non si smise più. I dossi sono nudi che a guardarli, noi che li conoscevamo da prima, fa impressione”.

Inutile ricordare che le piante nel nostro ecosistema e per la nostra sopravvivenza sono necessarie: portano cibo che nutre e l’ossigeno che respiriamo. Ce lo dice, poeticamente, il chimico Primo Levi, che è stato anche un fine scrittore, in un racconto intitolato ‘Carbonio’: “L’atomo fu condotto dal vento, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di esservi inchiodato da un raggio di sole; questo fulmineo lavoro a tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, è stato inventato dalle nostre sorelle silenziose, le piante, la cui temperatura è identica a quella dell’ambiente in cui vivono”.

Gli alberi raffreddano l’ambiente, un effetto che in un periodo di riscaldamento globale non è secondario per decidere di rendere le nostre città più verdi. Se provassimo non soltanto a comprendere i motivi scientifici della scelta, ma anche a superare una forte barriera culturale sulla nostra idea di città, allora forse non sarebbe un’utopia ‘Fitopolis’, la città vivente prospettata da Stefano Mancuso: un fiume di piante che entra nei nostri spazi urbani, sottrae le strade alle macchine e le restituisce alle persone, alla salute e all’estetica.

Semi, rami e radici permeano il nostro linguaggio in senso figurato, per indicare le origini, lo sviluppo, la stabilità, l’appartenenza; il termine libro deriva dal latino ‘liber’, la parte più cedevole e interna della corteccia: alberi e libri forniscono linfa vitale.

Leggere un libro e piantare un albero non sono un gesto inutile, bensì un atto nobile, e poetico.

(Immagine: Banksy, murale a Finsbury Park. Londra)

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