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‘E già rosseggiava l’aurora / quando vediamo lontano oscuri colli e umile / all’orizzonte, l’Italia – “Italia!”, esclama Acate per primo; / “Italia!” con lieto clamore i compagni salutano’.

Non avrei potuto non iniziare dall’Eneide di Virgilio, dall’enfasi di quel grido degli esuli troiani davanti alle coste della nostra penisola, la loro nuova patria. E per molti secoli l’idea di patria per noi italiani non ha coinciso con una identità politica, ma, a partire dalla lettura individuale e collettiva degli autori classici, con l’appartenenza ad una comunità culturale, unita da una tradizione e da una lingua letteraria condivise.

Un’espressione geografica, il ‘Paese ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda e l’Alpe’ (Dante); serva, superba, afflitta e avvilita, patria conculcata, nazione vagheggiata, ripiegata su un glorioso passato e intrappolata in un presente indolente; ma pur sempre il ‘bel paese là dove ‘l sì suona’.

L’intera nostra tradizione letteraria ha a che fare con la questione nazionale, quasi tutte le opere del canone rimandano al tema Italia: la nominano, ne segnano i confini, ne celebrano il paesaggio, educano i cittadini e ne forgiano l’immaginario. E se proprio nell’arte e nella letteratura si è radicata l’autentica grandezza del nostro Paese, il lamento sullo stato dell’Italia è diventato una specie di genere letterario a sé: gli scrittori, specie nel ‘900, hanno elencato i mali, i vizi, i difetti dei suoi abitanti, autori come Alvaro, Arbasino, Fortini, Doninelli partono dalla constatazione di uno Stato debole, disunito, male amministrato, sempre incline al compromesso.

Ma se facciamo un salto indietro di due secoli, nella Recanati del 1824, possiamo leggere alcune delle osservazioni più acute e penetranti che siano state scritte sul carattere degli italiani. Giacomo Leopardi ha avuto, almeno fino a quell’anno, un’esperienza limitata delle città, delle conversazioni nei salotti; ha trascorso la giovinezza in casa a studiare, ha parlato con gli ospiti del padre Monaldo, ha corrisposto con i dotti per lettera.

Eppure si è accorto che ‘il popolo italiano è il più cinico […], unisce alla vivacità naturale l’indifferenza acquisita verso ogni cosa e il poco riguardo verso gli altri’, dovuti alla mancanza di quella che il poeta definisce ‘società stretta’, cioè un’opinione pubblica che giudichi i costumi e i comportamenti dei cittadini: la mancanza di una società civile capace di una visione che riguardi la comunità e non solo il proprio tornaconto, un’indifferenza alla ‘res publica’ che già Guicciardini nel ‘500 individuava in uomini che badavano unicamente al proprio ‘particulare’ interesse.

Non solo la vita collettiva è dominata da cinismo e individualismo, ma le persone amano dileggiarsi tra loro: ‘In Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuole conversare, è il mostrare colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa’. Cinismo e aggressività guastano quel poco di conversazione che gli italiani intrattengono tra loro: una conversazione mai pacata né rilassata, anzi, una gara a chi mette in imbarazzo l’interlocutore, a chi lo deride meglio.

‘Gli italiani ridono della vita’. Il riso che Leopardi ha in mente non è la giovialità del nostro popolo, ma quello di chi non prende niente sul serio e in niente crede. La famosa franchezza ridanciana che spesso ci rende simpatici ha effetti nefasti sulla vita associata: ridere di tutto e tutti corrode la stima che i membri di una comunità dovrebbero avere gli uni per gli altri; significa che nulla e nessuno meritano il nostro sforzo.

Negli stessi anni in cui Leopardi scriveva il ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani’, Manzoni già immagina la passeggiata di don Abbondio in prossimità di ‘quel ramo del lago di Como’: dimenticatevi i bravi e il protagonista Renzo Tramaglino con la sua vicenda di ingiustizie e sopraffazioni, perché secondo Alberto Moravia è nel curato di campagna che viene tratteggiato il prototipo del carattere nazionale italiano.

Don Abbondio non è un malvagio, bensì un corrotto, è guasto moralmente e spiritualmente, perché ‘accade continuamente in Italia di imbattersi in uomini di ogni classe e professione, illustri e non, intelligenti e stupidi, vecchi e giovani, i quali tutti mostrano di aver paura di parlare, di dispiacere a qualche autorità, di compromettersi’: segno di un costume nazionale contraddistinto da scarso senso dei doveri, dall’accettazione rassegnata che la convivenza civile è retta dal sottobosco dello scambio dei favori e dall’adulazione dei potenti, dalla vocazione a salire sul carro del vincitore e dall’amore per il quieto vivere.

Don Abbondio sposa Renzo e Lucia solo quando è certo che don Rodrigo se l’è portato via la peste, e i due ragazzi non disapprovano veramente questa sua meschina viltà, perché in una società corrotta la corruzione è guardata con indulgenza anche da chi non vi partecipa.

Oggi 2 Giugno, la nostra Italia è parata a festa, si prende cura della sua Storia e della sua memoria; Pasolini direbbe che ‘questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza. L’Italia è un Paese gattopardesco, in cui tutto cambia per rimanere com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero’ (Scritti corsari).

Ma è il mio Paese, purtroppo o per fortuna: una Repubblica imperfetta, senz’altro preferibile a qualsiasi dittatura.

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Claudia Cominoli

Claudia Cominoli

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