«Papà non può tornare a casa. È in Iran e sta curando le persone malate di Covid». Per anni, questa piccola bugia bianca ha aiutato Ariou, il figlio – un tempo piccolo – di Ahmadreza, a convivere con l’assenza del padre. Ma ormai non basta più, non può giustificare i lunghi periodi di silenzio in cui nemmeno una telefonata arriva.
Ahmad Djalali, il ricercatore e medico specializzato in medicina dei disastri, ha insegnato in Belgio, in Svezia e in Italia, e dal 2016 è detenuto nel carcere di Evin dopo essere stato arrestato arbitrariamente durante un viaggio di lavoro in Iran e poi accusato di spionaggio a favore di Israele. Una calunnia ricorrente, usata dalle autorità iraniane per giustificare incarcerazioni illegittime con prove prefabbricate. In una lettera scritta dal carcere nel 2017, Djalali ha raccontato di essersi rifiutato di collaborare con i servizi segreti iraniani, subendo torture, minacce e lunghi periodi di isolamento.
Oggi Djalali ha 54 anni, una moglie, due figli e una vita che da quasi dieci anni resiste a un incubo fatto di torture fisiche e psicologiche, malattie e privazioni. Nel corso della detenzione ha sofferto di insufficienza cardiaca, gastrite cronica, calcoli biliari, perdita dei denti e della vista, oltre a una drastica perdita di peso e gravi crisi d’ansia e depressione. Ha superato una rivolta carceraria, un incendio, una pandemia e persino una guerra lampo tra Iran e Israele durante la quale, nel giugno 2025, il carcere di Evin è stato bombardato.
Il 23 giugno di quest’anno, durante i raid israeliani su Teheran, alcune sezioni del carcere sono state colpite. Nei giorni successivi decine di prigionieri politici, tra cui Djalali, sono stati prelevati dalle celle e trasferiti in luoghi sconosciuti. Dal giorno successivo nessuna notizia. Né la famiglia né l’ambasciata svedese hanno più ricevuto comunicazioni. Secondo Amnesty International quel silenzio rientra nella prassi del regime iraniano quando intende procedere con esecuzioni o isolamenti totali.
Per più di tre mesi la famiglia ha temuto il peggio. Finché il 24 settembre, Vida Mehrannia, la moglie, ha pubblicato un post su X: «After 3 months of disappearance that caused our family deep fear and worry, Ahmadreza Jalali was transferred back to Evin prison on 24 September», «Dopo 3 mesi di scomparsa che hanno causato profonda paura e preoccupazione alla nostra famiglia, Ahmadreza Jalali è stato trasferito nuovamente nella prigione di Evin il 24 settembre».
È vivo. Ahmad è ancora vivo.
Eppure, questa notizia che avrebbe dovuto accendere un faro di speranza, è invece passata quasi sotto silenzio. La stampa italiana ne ha parlato poco, la politica non ne ha parlato affatto. Da anni il governo italiano non spende una parola sulla sua vicenda, lasciando le trattative internazionali agli altri governi dei Paesi europei in cui Djalali ha lavorato.
Nessuna pressione diplomatica, nessun tentativo concreto di rilascio. Eppure, lo stesso carcere di Evin ha imprigionato, tra dicembre 2024 e gennaio 2025, anche la giornalista italiana Cecilia Sala, rilasciata dopo appena 21 giorni grazie a un’efficace azione diplomatica del nostro governo.
La storia di Ahmadreza Djalali, medico e ricercatore dell’Università del Piemonte Orientale, è invece rimasta confinata a una vicenda locale, poco visibile nel dibattito nazionale.
Come ha ricordato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, in un’intervista al podcast Non succede mai niente: «Se non trasformiamo Djalali in un volto riconoscibile, questa resterà una storia di serie B.
E sappiamo bene che quando le storie rimangono in sottofondo, vittime della Realpolitik, i risultati non vengono da soli. La cella in cui Djalali è detenuto non verrà aperta dalla fatina con la bacchetta magica».
In un Paese in cui questo medico ha contribuito alla ricerca scientifica e alla formazione accademica, il silenzio istituzionale non è solo un vuoto mediatico. È un costo morale.
Ahmadreza Djalali è ancora in pericolo. E il nostro silenzio – oggi più che mai – potrebbe costargli la vita.
“Non succede mai niente” è un podcast di Diego Correnti realizzato da La Voce di Novara e Nòva. A QUESTO LINK potete ascoltare la prima puntata.















