Una vittima illustre delle misure di prevenzione del Covid-19 per bar e ristoranti è il buffet e il rito socialmondano che vede al centro l’apericena.
Entrata come neologismo anche nel dizionario Zingarelli, l’apericena era diventata non solo il surrogato delle cene dalla mamma o dalla mamma della fidanzata per milioni di giovani italiani e per moltissimi di essi, studenti fuorisede a corto di quattrini e non bravi a cucinare anche un’ ancora di salvezza, ma l’alternativa alla cena classica al ristorante.
L’apericena era quasi sempre rappresentata da un bicchierone per lo più alcolico oppure da un buon bicchiere di bollicine e dal bancone o da un tavolo più o meno lungo o più tavoli dove servirsi a volontà senza limiti: prosciutto crudo o cotto, salmone, salsicce, wurstel, pasta fredda o calda, risotti, tartine, pezzi di tramezzino, paninetti, salamini, insalate, salse di tutti i tipi e colori. Non più quattro olive, due mandorle, un po’ di patatine, no, uno sfoggio di arte culinaria, con un prezzo variabile dai 5 ai 10 euro e una gara fra locali, una concorrenza spietata a chi sapeva dare di più, a chi sapeva confezionare meglio gli avanzi, per il prezzo più basso, con tanto di guide on line e cartacee alle apericene.
Ora l’impossibilità di ammassarsi in pochi metri per disputarsi la maggior dose di cibo per decine di commensali o aperacenalisti dovuta alle regole anti-assembramento e l’inopportunità di toccare tutti insieme con le mani gli stessi cibi ha fatto saltare questo business che era diventato anche un fatto di costume.
Seduti al tavolo in attesa di essere serviti non dovrebbe permettere di ricevere più e ingurgitare grandiose quantità di pizze, pizzette, pesciolini fritti e calamaretti.
Non sarà certamente la conseguenza e il lascito peggiore di questa emergenza maledetta ma certamente è una delle più appariscenti.
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