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Quirinale story: quei passaggi ancora incompiuti, mentre al Colle salgono Ciampi, Napolitano e Mattarella

Quattro elezioni per tre presidenti caratterizzano l'ultimo periodo storico della vita politica repubblicana, tra crisi internazionali e riforme rimaste nel cassetto

Quattro elezioni per tre presidenti. Sono quelle che accompagnano l’ultimo periodo storico della vita repubblicana. Lo spegnersi del “secolo breve” e i primi due decenni del nuovo millennio fanno da sfondo a profondi mutamenti nel quadro politico nazionale e non. Tangentopoli contribuisce a spazzare via quelle che erano state le forze politiche tradizionali. Alla ribalta salgono nuovi partiti e nuovi personaggi, ma la sensazione rimane quella di un passaggio globale, una transizione rimasta ancora incompiuta. Tutto meno l’appuntamento con l’elezione dell’inquilino del Qurinale. Costante immutata, tra accordi preventivi, ripicche, colpi di scena e no.


La storia riparte nella primavera nel 1999. In vista della scandenza del mandato di Scalfaro, come accaduto quattordici anni prima con Cossiga, è un accordo lampo fra il presidente del Consiglio Massimo D’Alema e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi ad aprire la strada del Quirinale a Carlo Azeglio Ciampi. Al primo scrutinio – il 13 maggio – l’ex governatore della Banca d’Italia e all’epoca ministro indipendente del Tesoro, bilancio e programmazione economica, viene eletto con 707 voti su 990 (1.010 erano gli avanti diritto). Una buona maggioranza (33 schede oltre il quorum richiesto dei due terzi dell’intera assemblea), anche se all’appello mancano, numeri alla mano, quasi duecento suffragi della somma degli elettori che lo candidano.


Trascorrono sette anni e si giunge al 2006. Per la prima volta diverse forze politiche avanzano l’idea di una rielezione del capo dello Stato, uscente ma il diretto interessato – Ciampi – ribadisce la sua indisponibilità, sia per ragioni anagrafiche (86 anni) sia perché il rinnovo di un mandato già “lungo” come quello presidenziale italiano “mal si confà” (per usare una sua espressione) con le stesse caratteristiche repubblicane.


Dopo una serie di veti incrociati fra i due schieramenti principali e tramontata anche l’idea di una donna, nel centrosinistra emerge il nome del senatore a vita Giorgio Napolitano, che accetta la candidatura a patto che lo si voti unicamente dal quarto scrutinio (quando basta la metà più uno dei componenti l’assemblea). Come nelle previsioni tante schede bianche caratterizzano le prime tre votazioni, ma alla quarta Napolitano viene eletto con 543 voti su 990. Di fatto ha ottenuto i suffragi unicamente dal centrosinistra (il leader leghista Umberto Bossi ne ha conquistati 42) ed è il primo esponente ex comunista a salire al Colle.

Ancora una volta, all’approssimarsi della fine del mandato, si profila l’ipotesi di una rielezione del presidente in carica, ma Napolitano inizialmente declina per le stesse ragioni a suo tempo spiegate dal suo precedessore Ciampi. Solo dopo giorni di stallo e alla luce anche della sorpendente bocciatura della candidatura dell’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi (al quale in una circostanza vengono meno 101 voti da presunti “franchi tiratori” dello stesso centrosinistra), Napolitano accetta un secondo mandato “a tempo”, espressione della “manifestazione di unità e coesione” del Parlamento. Il 20 aprile Napolitano è così rieletto con 738 voti su 997, precedendo il giurista Stefano Rodotà, sino a quel momento il più votato grazie al sostegno del Movimento 5 Stelle.


Come ampiamente annunciato da tempo, Napolitano rassegna le dimissioni nel gennaio del 2015, appena dopo la conclusione del semestre di residenza italiana dell’Unione europea. Il suo secondo mandato è durato poco più di venti mesi, ma fortunatamente l’interregno è piuttosto breve. Il 31 gennaio, al quarto scrutinio, riesce a prevalere la candidatura, avanzata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, del giudice costituzionale Sergio Mattarella, eletto con 665 voti su 995. E la storia continua…

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Luca Mattioli

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