Il regime fascista cadde sotto il peso della sua incapacità di reggere lo sforzo dello scontro bellico, mostrando tutti i limiti della sua politica modernizzante, e della inadeguatezza della sua interpretazione del tornante storico degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, pur essendosi proclamato la soluzione definitiva della crisi innescata nelle società europee dalla deflagrazione di quel conflitto e aver raccolto molti consensi intorno a questa pretesa e, soprattutto, aver trovato molti, troppi solerti sostenitori disposti a farsi convincere della sua credibilità.

Con un gigantesco errore di valutazione, ben oltre qualsiasi immaginabile ὕβρις (hybris), il cui vertice può essere collocato nella dichiarazione di guerra agli Stati Uniti annunciata da palazzo Venezia l’11 dicembre 1941 davanti a una folla plaudente ed euforica, tipico degli autocrati che senza dialettica democratica finiscono per perdere il contatto con la realtà, aveva scatenato una guerra di aggressione a rimorchio della potenza tedesca risoltasi in una pesantissima sconfitta militare, che aveva indotto le classi dirigenti italiane prima a sostituire Mussolini e a liquidare contemporaneamente, con la sua sostituzione, il regime costruito nei precedenti vent’anni e successivamente, quando ormai l’esercito angloamericano stava rapidamente risalendo la penisola e bombardando pesantemente le principali città italiane, a chiedere in ginocchio agli Alleati un armistizio, concesso a condizioni durissime, la gestione delle cui conseguenze si risolse in un disastro catastrofico, di cui paghiamo ancora oggi, dopo ottant’anni, le conseguenze sotto i profili più diversi, a incominciare dalla reputazione internazionale.

Nonostante il termine totalitarismo sia stato utilizzato da Giovanni Gentile per definire la dottrina del fascismo nella voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana firmata da Benito Mussolini, il regime non riuscì mai a essere compiutamente totalitario, perché per arrivare al potere dovette stringere delle alleanze: con la monarchia, e le classi dirigenti che a vario titolo alla monarchia erano legate, e con la chiesa cattolica. Che, come tutte le alleanze, posero vincoli alla sua possibilità di azione.

Quello che chiamiamo “regime fascista”, non è stato, infatti, il dominio del movimento fascista e del suo duce, ma il risultato dell’adattamento reciproco, a volte asimmetrico, tra il movimento fascista istituzionalizzatosi, la monarchia e la chiesa cattolica, in cui ciascun attore mantenne spazi di autonomia per perseguire i propri obiettivi e, contemporaneamente, contrattò con gli altri attori le politiche nazionali. Anzi, si può dire che l’origine della fine del regime fu proprio il tentativo del fascismo, iniziato tra il 1937 e il 1938, di liberarsi degli alleati che venivano ormai considerati non più risorse, ma soltanto ostacoli che gli impedivano la piena realizzazione della vocazione totalitaria.

Questa natura composita del regime fascista, che lo configura come un’autocrazia secondo la giustamente celeberrima classificazione di Juan Linz, favorì la transizione alla democrazia, perché, a differenza degli stati compiutamente totalitari che assorbono nel regime tutte le articolazioni sociali, gli stati autoritari conservano, pur se fortemente limitati, elementi di pluralismo. Ma prima che si delineasse chiaramente la direzione da imprimere alla transizione, che si chiuse il 1° gennaio 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, e che si affermassero gli assetti del nuovo regime ci vollero cinque drammatici anni, in cui i progetti dei singoli attori dovettero trovare una struttura che li contenesse, all’interno del processo di ridefinizione degli equilibri internazionali che stava plasmando il mondo, dettando gli spazi e i limiti invalicabili entro cui delineare questa struttura.

È all’interno di questa complessa dinamica che va collocato il significato storico e politico della Resistenza. La conseguenza più tragica dell’incapacità del governo Badoglio di far fronte alla situazione determinata dalla firma dell’armistizio fu l’occupazione tedesca di buona parte del territorio nazionale; contemporaneamente la garanzia della sua stessa sopravvivenza risiedeva nell’occupazione alleata delle regioni del sud. Tra l’altro, in queste difformi e per certi versi opposte esperienze, si radicano le differenze che segnano la memoria storica sedimentata nelle diverse regioni italiane.

Ci sono regioni per cui il termine stesso “Resistenza” non ha ragion d’essere. Noi ancora oggi le diciamo “liberate”, ma nella realtà storica furono sottratte alla sovranità italiana, non all’occupazione tedesca. E dal 25 luglio all’8 settembre, nemmeno alla sovranità dell’Italia fascista. Altre subirono l’occupazione per poche settimane, altre ancora, collocate a sud della Linea Gotica, per pochi mesi. Resistenza, dunque, rimanda a vissuti molto differenti nelle diverse parti d’Italia.

La nuova Italia prendeva forma gradatamente nel Regno del sud, dove ai due attori che si sfilarono dal regime fascista per guidare la transizione si aggiunsero da subito – secondo governo Badoglio – i partiti che raccoglievano e organizzavano i settori della società italiana che il fascismo aveva emarginato e represso. Nelle regioni occupate, quelle stesse forze cercarono di coordinare la lotta contro i tedeschi e la tragicamente – quanto tragicamente! – ininfluente Repubblica sociale, costruendo un progetto politico in grado di connettere l’azione di tutti coloro che avevano ritenuto di non potersi permettere, né come singoli, né come appartenenti alla comunità nazionale, di attendere semplicemente la risalita degli eserciti alleati con le rinascenti strutture dello stato italiano e le nascenti strutture del suo sistema politico democratico e forgiando una classe dirigente in grado di partecipare alla formazione della nuova Italia, che avrebbe inserito nel suo svolgersi una propria sensibilità, forgiata dalla lotta partigiana, meno incline a tollerare le inevitabili continuità che la natura del patto sancito dalla Costituzione provvisoria implicava. Non fu certo un processo lineare, né tutti gli attori che vi presero parte avevano gli stessi obiettivi e lo interpretavano allo stesso modo, ma il grande risultato che quella generazione ci ha consegnato fu la capacità di mantenere costantemente un’unità di fondo, sulla quale fu possibile costruire il percorso che arriva fino a oggi.

Un tratto caratterizzante – e rapidamente scomparso dalla nostra memoria collettiva – di una parte di quella classe dirigente era la profonda consapevolezza della complessità delle sfide che dovevano affrontare. «L’Italia democratica e antifascista» – nelle parole di Achille Marazza, uno degli uomini più rappresentativi di quella generazione – «che aveva testimoniato per la libertà, per la dignità civile di un popolo europeo in uno stato moderno» e che «si preparava a raccogliere con angosciata speranza, l’eredità di lutti e di rovine materiali e morali che il fascismo aveva accumulato» aveva ben presente che di fronte al mondo l’Italia era una e che le lacerazioni che l’avevano attraversata negli ultimi trent’anni erano ben lontane dall’essere rimarginate.

Angosciata: una feroce guerra di aggressione persa, e non c’è situazione peggiore di chi si sente così tracotante da aggredire e poi perde miseramente, un paese in larga parte distrutto come conseguenza di quella aggressione, una società completamente disarticolata da vent’anni di regime che aveva quale fondamento la rimozione di qualsiasi capacità critica, un ethos democratico da costruire pazientemente, quasi senza tradizioni alle spalle, nella compresenza di progetti politici distanti e per non pochi aspetti ostili tra loro, l’incertezza di quali sarebbero stati i nuovi equilibri mondiali e gli spazi che ci avrebbero assegnato.

E tuttavia speranza, che si alimentava proprio dalla capacità di guardare in faccia la realtà per quello che era. Quello che ci manca e che ci è sempre mancato da allora. Ottant’anni dopo, ritrovare l’umiltà di riflettere sui catastrofici errori che ci hanno condotto a subire lutti e devastazioni, illudendoci che consegnarci a un capo che pensa per tutti e si trasforma in condottiero che umilia il resto del mondo fosse la via per risolvere i nostri problemi, e costretto a combattere disperatamente per difendere le nostre terre e la nostra dignità credo sia il modo migliore per rendere omaggio agli uomini e alle donne che hanno saputo non farsi sommergere.

Magari cominciando a imparare i loro nomi.

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La festa dell’umiltà

Il regime fascista cadde sotto il peso della sua incapacità di reggere lo sforzo dello scontro bellico, mostrando tutti i limiti della sua politica modernizzante, e della inadeguatezza della sua interpretazione del tornante storico degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, pur essendosi proclamato la soluzione definitiva della crisi innescata nelle società europee dalla deflagrazione di quel conflitto e aver raccolto molti consensi intorno a questa pretesa e, soprattutto, aver trovato molti, troppi solerti sostenitori disposti a farsi convincere della sua credibilità.

Con un gigantesco errore di valutazione, ben oltre qualsiasi immaginabile ὕβρις (hybris), il cui vertice può essere collocato nella dichiarazione di guerra agli Stati Uniti annunciata da palazzo Venezia l’11 dicembre 1941 davanti a una folla plaudente ed euforica, tipico degli autocrati che senza dialettica democratica finiscono per perdere il contatto con la realtà, aveva scatenato una guerra di aggressione a rimorchio della potenza tedesca risoltasi in una pesantissima sconfitta militare, che aveva indotto le classi dirigenti italiane prima a sostituire Mussolini e a liquidare contemporaneamente, con la sua sostituzione, il regime costruito nei precedenti vent’anni e successivamente, quando ormai l’esercito angloamericano stava rapidamente risalendo la penisola e bombardando pesantemente le principali città italiane, a chiedere in ginocchio agli Alleati un armistizio, concesso a condizioni durissime, la gestione delle cui conseguenze si risolse in un disastro catastrofico, di cui paghiamo ancora oggi, dopo ottant’anni, le conseguenze sotto i profili più diversi, a incominciare dalla reputazione internazionale.

Nonostante il termine totalitarismo sia stato utilizzato da Giovanni Gentile per definire la dottrina del fascismo nella voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana firmata da Benito Mussolini, il regime non riuscì mai a essere compiutamente totalitario, perché per arrivare al potere dovette stringere delle alleanze: con la monarchia, e le classi dirigenti che a vario titolo alla monarchia erano legate, e con la chiesa cattolica. Che, come tutte le alleanze, posero vincoli alla sua possibilità di azione.

Quello che chiamiamo “regime fascista”, non è stato, infatti, il dominio del movimento fascista e del suo duce, ma il risultato dell’adattamento reciproco, a volte asimmetrico, tra il movimento fascista istituzionalizzatosi, la monarchia e la chiesa cattolica, in cui ciascun attore mantenne spazi di autonomia per perseguire i propri obiettivi e, contemporaneamente, contrattò con gli altri attori le politiche nazionali. Anzi, si può dire che l’origine della fine del regime fu proprio il tentativo del fascismo, iniziato tra il 1937 e il 1938, di liberarsi degli alleati che venivano ormai considerati non più risorse, ma soltanto ostacoli che gli impedivano la piena realizzazione della vocazione totalitaria.

Questa natura composita del regime fascista, che lo configura come un’autocrazia secondo la giustamente celeberrima classificazione di Juan Linz, favorì la transizione alla democrazia, perché, a differenza degli stati compiutamente totalitari che assorbono nel regime tutte le articolazioni sociali, gli stati autoritari conservano, pur se fortemente limitati, elementi di pluralismo. Ma prima che si delineasse chiaramente la direzione da imprimere alla transizione, che si chiuse il 1° gennaio 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, e che si affermassero gli assetti del nuovo regime ci vollero cinque drammatici anni, in cui i progetti dei singoli attori dovettero trovare una struttura che li contenesse, all’interno del processo di ridefinizione degli equilibri internazionali che stava plasmando il mondo, dettando gli spazi e i limiti invalicabili entro cui delineare questa struttura.

È all’interno di questa complessa dinamica che va collocato il significato storico e politico della Resistenza. La conseguenza più tragica dell’incapacità del governo Badoglio di far fronte alla situazione determinata dalla firma dell’armistizio fu l’occupazione tedesca di buona parte del territorio nazionale; contemporaneamente la garanzia della sua stessa sopravvivenza risiedeva nell’occupazione alleata delle regioni del sud. Tra l’altro, in queste difformi e per certi versi opposte esperienze, si radicano le differenze che segnano la memoria storica sedimentata nelle diverse regioni italiane.

Ci sono regioni per cui il termine stesso “Resistenza” non ha ragion d’essere. Noi ancora oggi le diciamo “liberate”, ma nella realtà storica furono sottratte alla sovranità italiana, non all’occupazione tedesca. E dal 25 luglio all’8 settembre, nemmeno alla sovranità dell’Italia fascista. Altre subirono l’occupazione per poche settimane, altre ancora, collocate a sud della Linea Gotica, per pochi mesi. Resistenza, dunque, rimanda a vissuti molto differenti nelle diverse parti d’Italia.

La nuova Italia prendeva forma gradatamente nel Regno del sud, dove ai due attori che si sfilarono dal regime fascista per guidare la transizione si aggiunsero da subito – secondo governo Badoglio – i partiti che raccoglievano e organizzavano i settori della società italiana che il fascismo aveva emarginato e represso. Nelle regioni occupate, quelle stesse forze cercarono di coordinare la lotta contro i tedeschi e la tragicamente – quanto tragicamente! – ininfluente Repubblica sociale, costruendo un progetto politico in grado di connettere l’azione di tutti coloro che avevano ritenuto di non potersi permettere, né come singoli, né come appartenenti alla comunità nazionale, di attendere semplicemente la risalita degli eserciti alleati con le rinascenti strutture dello stato italiano e le nascenti strutture del suo sistema politico democratico e forgiando una classe dirigente in grado di partecipare alla formazione della nuova Italia, che avrebbe inserito nel suo svolgersi una propria sensibilità, forgiata dalla lotta partigiana, meno incline a tollerare le inevitabili continuità che la natura del patto sancito dalla Costituzione provvisoria implicava. Non fu certo un processo lineare, né tutti gli attori che vi presero parte avevano gli stessi obiettivi e lo interpretavano allo stesso modo, ma il grande risultato che quella generazione ci ha consegnato fu la capacità di mantenere costantemente un’unità di fondo, sulla quale fu possibile costruire il percorso che arriva fino a oggi.

Un tratto caratterizzante – e rapidamente scomparso dalla nostra memoria collettiva – di una parte di quella classe dirigente era la profonda consapevolezza della complessità delle sfide che dovevano affrontare. «L’Italia democratica e antifascista» – nelle parole di Achille Marazza, uno degli uomini più rappresentativi di quella generazione – «che aveva testimoniato per la libertà, per la dignità civile di un popolo europeo in uno stato moderno» e che «si preparava a raccogliere con angosciata speranza, l’eredità di lutti e di rovine materiali e morali che il fascismo aveva accumulato» aveva ben presente che di fronte al mondo l’Italia era una e che le lacerazioni che l’avevano attraversata negli ultimi trent’anni erano ben lontane dall’essere rimarginate.

Angosciata: una feroce guerra di aggressione persa, e non c’è situazione peggiore di chi si sente così tracotante da aggredire e poi perde miseramente, un paese in larga parte distrutto come conseguenza di quella aggressione, una società completamente disarticolata da vent’anni di regime che aveva quale fondamento la rimozione di qualsiasi capacità critica, un ethos democratico da costruire pazientemente, quasi senza tradizioni alle spalle, nella compresenza di progetti politici distanti e per non pochi aspetti ostili tra loro, l’incertezza di quali sarebbero stati i nuovi equilibri mondiali e gli spazi che ci avrebbero assegnato.

E tuttavia speranza, che si alimentava proprio dalla capacità di guardare in faccia la realtà per quello che era. Quello che ci manca e che ci è sempre mancato da allora. Ottant’anni dopo, ritrovare l’umiltà di riflettere sui catastrofici errori che ci hanno condotto a subire lutti e devastazioni, illudendoci che consegnarci a un capo che pensa per tutti e si trasforma in condottiero che umilia il resto del mondo fosse la via per risolvere i nostri problemi, e costretto a combattere disperatamente per difendere le nostre terre e la nostra dignità credo sia il modo migliore per rendere omaggio agli uomini e alle donne che hanno saputo non farsi sommergere.

Magari cominciando a imparare i loro nomi.

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