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Schubert e Verdi alla Scala riempiono l’anima per lungo tempo

Il commento ad un concerto della Scala rischia sempre di diventare un peana sulla musica, sugli interpreti e sul teatro, ma è un rischio che va corso, poiché il piacere di scriverne è sempre di gran lunga superiore al rischio

Il commento ad un concerto della Scala rischia sempre di diventare un peana sulla musica, sugli interpreti e sul teatro, ma è un rischio che va corso, poiché il piacere di scriverne è sempre di gran lunga superiore al rischio. Sabato scorso erano in programma Schubert e Verdi. La Sinfonia n. 4 di Franz Schubert è detta Tragica ma, a ben vedere, propriamente di “tragico” ha davvero poco e, già dal primo movimento Allegro vivace, si può desumere che l’animo non debba necessariamente predisporsi per una discesa agli inferi.

L’Andante del secondo movimento si omologa al diktat della forma-sonata haydiniana, dove i due temi si contrappongono per poi svilupparsi. Qui il contrappunto si fa quasi divisionista e le disfide tra strumenti sfociano nel Menuetto del terzo movimento che si distende come un paesaggio di pianura, riferimento fatto da Anton Schindler nel suo “Memorie su Franz Schubert”. Non si può negare che la direzione fluida e senza scossoni di Riccardo Chailly contribuisca, e non poco, dando questa impressione di vasto orizzonte.

La seconda parte della serata scaligera è dedicata alle ultime composizioni di Giuseppe Verdi, quei “Quattro pezzi sacri” che incutono un certo timore referenziale sia per il tema che per il suo autore. Certo che per un ateo, come si sosteneva fosse Giuseppe Verdi, dover comporre i Quattro pezzi sacri doveva essere stata una bella impresa. Ascoltandoli nella loro sequenza ovvero Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine Maria e Te Deum, non sembra possibile che a strutturarli nel loro corposo misticismo ci possa essere stata la mente di un uomo ateo. In musica, come in arte o in letteratura, barare con le proprie convinzioni richiede un surplus di cinismo e una mostruosa forza (im)morale. Persino il pubblico scaligero, che ascoltò per la prima volta i quattro pezzi nel 1889, pensò che non si trattasse dello stesso Verdi che avevano già imparato a conoscere: qui lo era stile rigoroso e spoglio, tutto interiore e molto lontano dai suoi roboanti e plastici spartiti operistici.

L’Ave Maria che scontentò il burbero Toscanini introduce i quattro pezzi: un coro a cappella, morbido ed austero, lo Stabat Mater dallo strazio intimo, reso con somma maestria dalla polifonia (molto moderna, se distaccata dal tema religioso), le Laudi alla Vergine Maria di stampo polifonico ed antico, dove si sente la grande lezione di Pierluigi da Palestrina, piena di quiete paradisiaca. Infine il Te Deum un insieme di pace sommessa e di trasfigurate immagini di un cielo popolato di visioni celesti. Grandissimo il Coro della Scala (anche in senso numerico) diretto dal maestro Alberto Malazzi, con la bella voce solista di Barbara Lavarian, lungamente applauditi dal pubblico in sala. Una serata alla Scala riempie l’anima per lungo tempo.

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Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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