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A leggere le recensioni di “Rapito” il bel film di Marco Bellocchio, sembrerebbe trattarsi di un film eminentemente storico ed effettivamente di questo si tratta. L’episodio raccontato risale al 1858 e a quei tempi Bologna era ancora sotto il dominio del Papa-Re, Pio IX, quando il piccolo Edgardo Mortara, di famiglia ebraica, viene segretamente battezzato dalla donna di servizio che, fraintendendo e pensandolo in fin di vita, decide di sottrarlo al limbo, a cui erano destinate le anime non battezzate ( e tali erano anche considerati gli ebrei).

Venuto misteriosamente a conoscenza del fatto, il Papa decide di far prelevare il piccolo e, grazie all’intervento del braccio armato della Chiesa, la Santa Inquisizione, viene strappato alla famiglia d’origine per imporgli una vita di fede cristiana. La vicenda, realmente accaduta, è certamente significativa dell’esercizio del potere da parte della Chiesa in quegli anni, ma come avvisa lo stesso Bellocchio, “È un film, non è né un libro di storia o di filosofia, né una tesi ideologica” ed è quindi evidente che si tratti del racconto di una vicenda e non certo di una lezione sulla Storia della Chiesa (e del suo potere temporale). Ma c’è di più (o, almeno c’è dell’altro). “Rapito” è un grande film di “segni”. Si tratta forse di un aspetto secondario dell’opera, ma visto che giornali e riviste specializzati, puntano tutto sul racconto storico e sui giudizi che si possono dare su una simile assurda vicenda, vale la pena considerare anche questo aspetto, niente affatto trascurabile. Già dal principio a dare fuoco alle polveri è un segno: la fantesca vede i genitori del piccolo Edgardo recitare una preghiera davanti alla culla del bambino e da quel “segno” deriva una convinzione, cioè che il bambino sia malato. Non per tirarla troppo per le lunghe, ma come affermato da teorie semiotiche, é il caso di ricordare che un “segno” per funzionare ha bisogno di un “emettitore” e poi di un “ricettore” che, tramite un “messaggio”, riceve una informazione. Tutto questo però non può avvenire senza un “contesto”.

E nel nostro caso il punto è proprio questo contesto, formato da un substrato di pregiudizi millenari contro gli ebrei e, in generale, contro le culture, le fedi, le idee non omologate. In fondo le fedi sono fatte anche di segni esteriori forti. Edgardo già adulto, nel corso della sua durissima “rieducazione”, per punizione verrà obbligato dal Papa a tracciare con la lingua tre croci per terra, in una scena tra le più drammatiche del film. Gli ebrei si differenziano alla vista, proprio grazie ai segni: la piccola Mezuzah data dalla madre al piccolo Edgardo, lo “Shema Israel”, così come la Kippah che ricopre il capo degli ebrei. Tutto questo nel film è ben evidenziato poiché, poi in fin dei conti le due grandi religioni, quella cristiana e quella ebraica hanno più punti di unione che punti di divisione, a cominciare dal fatto, e non è cosa da poco, che pregano lo stesso Dio.

Il fim di Bellocchio è ben ambientato, prima in una lugubre Bologna e poi in una altrettanto inquietante Roma che ben rispecchiano la realtà di quei tempi difficili (ammesso che ne esistano di facili). Alla cacciata di Pio IX, a seguito della breccia di Porta Pia nel 1870 Edgardo Mortara, ormai sacerdote, inveirà contro il fratello, (arruolato nelle truppe sabaude e appena entrate in Roma) che cerca di convincerlo a tornare a casa. Una storia difficile da raccontare che non ha scoraggiato il coraggioso Marco Bellocchio che ne ha fatto un film non manicheo, molto originale e di grande bellezza.

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Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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