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Il ritorno di Casanova, Salvatores convince a metà

La pletora di film dedicati al cinema non sembra avere termine e così dopo “Tha Fabelmans”, “Babylon”, “Empire of light” per citare solo le ultime tre uscite, ecco la risposta italiana (non è l’unica a dire il vero) e cioè “Il ritorno di Casanova” di Gabriele Salvatores. La storia è quella di Leo Bernardi, regista in crisi d’indennità, in forte competizione con un regista giovane Lorenzo Marino (che nome improbabile!), che non riesce a portare a termine il film che dà il titolo al film: no, non è un errore né un gioco di parole, questo gioco di scatole cinesi di film che hanno per oggetto film, sale cinematografiche che proiettano film che hanno per oggetto il cinema, sembra ormai diventato un gioco un po’ stucchevole, ma questo passa il convento. Il film di Salvatores, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Arthur Schnitzler, è un film girato con una certa grazia, ma forse con un po’ troppo formalismo.

Due i piani di narrazione, quello del regista in crisi, delle sue relazioni affettive, dell’intenso rapporto con il montatore e dello scontro perenne col produttore, tutto questo girato in un algido b/n e l’altro piano quello del prodotto (cioè un film su Giacomo Casanova), girato a colori. La trovata di Salvatores, quella di scegliere il colore per l’immaginazione e il b/n per la realtà, detto francamente, non è poi così geniale come i media e una parte della critica vorrebbero far credere. Resto dell’opinione che l’effetto speciale dovrebbe essere intrinseco alla narrazione filmica e non qualcosa di posticcio, ma naturalmente si tratta di una opinione personale.

L’intersezione dei due piani e l’intersecarsi delle vicende di Casanova con quelle del regista (anche lui un po’ Casanova), non convincono appieno. Salvatores sembra gigioneggiare con questo artifizio visto più e più volte nella storia del cinema. L’ “happy end” è garantito, il film viene portato a termine dal regista con il fondamentale aiuto del montatore Gianni (il cognome non c’è boh…). Anche le scene salienti e più pubblicizzate nei “trailers”, come quella della casa dalla domotica impazzita, hanno qualcosa di “déjà vu”, basti ricordare le sequenze demenziali di Jacques Tati in “Playtime” (del 1965!).

La storia d’amore tra il regista e la contadina conosciuta durante la ricerca di una “location” del set è un po’ stantia, mentre “Giacomo Casanova” sembra essere più convincente anche grazie alla buona interpretazione di Fabrizio Bentivoglio, ma certo, se si voleva alludere (ma forse no), al Donald Sutherland del “Casanova” di Federico Fellini, allora “non ci resta che piangere” tanto per restare in tema di citazioni. Sufficienza piena, sicuramente, ma non mezzo punto in più. E, visti i tempi, mi scuso per le espressioni in lingua inglese e francese utilizzati.

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Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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