È la prima volta da quando nel giugno del 1979 il Parlamento europeo viene eletto con suffragio diretto che la campagna elettorale non è frammentata all’interno dei singoli paesi membri su questioni di carattere nazionale, ma verte su temi che riguardano l’Europa nel suo complesso. Anzi, i temi di questa campagna riguardano i fondamenti stessi dell’Unione, quale forma deve assumere in futuro; in particolare se il processo di integrazione deve continuare ed essere approfondito o, al contrario, deve essere arrestato e parzialmente ridotto. Più un dibattito di natura costituzionale, quindi, che un confronto tra programmi alternativi sulle politiche dell’Unione.

La caratteristica peculiare di questo dibattito risiede, però, nel fatto che la posizioni contrarie a un grado di integrazione troppo approfondito non si limitano a proporre di smantellare le istituzioni comunitarie e di ridurre le politiche comuni al minimo indispensabile, ma mettono pesantemente in discussione i valori del liberalismo politico, che di quelle istituzioni e di quelle politiche rappresentano il fondamento. Non ci si limita a proporre di rivedere la distribuzione delle competenze tra l’Unione nel suo complesso e i singoli paesi membri, ma, nel chiedere di riportare sotto il controllo dei governi nazionali competenze significative, si delegittima l’idea stessa di affidare a regole concordate e cogenti la disciplina dello spazio pubblico. Per contro, tutte le forze che sostengono il processo di integrazione condividono una concezione della politica basata sull’articolazione e la differenziazione dei poteri pubblici, al fine di garantire la libertà individuale e rappresentare la pluralità delle istanze presenti nella società.

E d’altra parte non potrebbe essere diversamente. Fin dalla nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio nel 1951, il processo di integrazione comunitaria ha avuto come primo obiettivo quello di lasciarsi definitivamente alle spalle i nazionalismi, la cui deriva razzista e totalitaria era stata la causa principale, se non unica, della catastrofe che aveva ridotto per sempre alla marginalità le potenze europee. Nella concezione degli uomini che posero mano al progetto comunitario, la possibilità stessa di ripristinare e sostenere lo sviluppo di ordinamenti costituzionalmente democratici all’interno dei singoli paesi dipendeva a doppio filo dalla capacità di costruire un organismo istituzionale che, assumendo fino in fondo la lezione del recente passato, favorisse la cooperazione tra parti sempre meno distinte, ponendo un limite sempre più esteso alla competizione internazionale. È per questo che le forze politiche che sostengono la tutela dei diritti individuali e lo sviluppo del sistema democratico sostengono naturalmente anche il processo di integrazione e che le forze che a vario titolo si richiamano al nazionalismo lo contrastano in tutti i modi.

Secondo la lezione di Bobbio, i processi che creano le condizioni per lo sviluppo della pace, della democrazia e dei diritti si rinforzano a vicenda, ma è sufficiente un’inversione di tendenza in uno solo di questi processi, perché incomincino ad arretrare anche gli altri. Quando andremo a votare domenica, vediamo di pensarci. Bene.

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La posta in gioco

È la prima volta da quando nel giugno del 1979 il Parlamento europeo viene eletto con suffragio diretto che la campagna elettorale non è frammentata all’interno dei singoli paesi membri su questioni di carattere nazionale, ma verte su temi che riguardano l’Europa nel suo complesso. Anzi, i temi di questa campagna riguardano i fondamenti stessi dell’Unione, quale forma deve assumere in futuro; in particolare se il processo di integrazione deve continuare ed essere approfondito o, al contrario, deve essere arrestato e parzialmente ridotto. Più un dibattito di natura costituzionale, quindi, che un confronto tra programmi alternativi sulle politiche dell’Unione.

La caratteristica peculiare di questo dibattito risiede, però, nel fatto che la posizioni contrarie a un grado di integrazione troppo approfondito non si limitano a proporre di smantellare le istituzioni comunitarie e di ridurre le politiche comuni al minimo indispensabile, ma mettono pesantemente in discussione i valori del liberalismo politico, che di quelle istituzioni e di quelle politiche rappresentano il fondamento. Non ci si limita a proporre di rivedere la distribuzione delle competenze tra l’Unione nel suo complesso e i singoli paesi membri, ma, nel chiedere di riportare sotto il controllo dei governi nazionali competenze significative, si delegittima l’idea stessa di affidare a regole concordate e cogenti la disciplina dello spazio pubblico. Per contro, tutte le forze che sostengono il processo di integrazione condividono una concezione della politica basata sull’articolazione e la differenziazione dei poteri pubblici, al fine di garantire la libertà individuale e rappresentare la pluralità delle istanze presenti nella società.

E d’altra parte non potrebbe essere diversamente. Fin dalla nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio nel 1951, il processo di integrazione comunitaria ha avuto come primo obiettivo quello di lasciarsi definitivamente alle spalle i nazionalismi, la cui deriva razzista e totalitaria era stata la causa principale, se non unica, della catastrofe che aveva ridotto per sempre alla marginalità le potenze europee. Nella concezione degli uomini che posero mano al progetto comunitario, la possibilità stessa di ripristinare e sostenere lo sviluppo di ordinamenti costituzionalmente democratici all’interno dei singoli paesi dipendeva a doppio filo dalla capacità di costruire un organismo istituzionale che, assumendo fino in fondo la lezione del recente passato, favorisse la cooperazione tra parti sempre meno distinte, ponendo un limite sempre più esteso alla competizione internazionale. È per questo che le forze politiche che sostengono la tutela dei diritti individuali e lo sviluppo del sistema democratico sostengono naturalmente anche il processo di integrazione e che le forze che a vario titolo si richiamano al nazionalismo lo contrastano in tutti i modi.

Secondo la lezione di Bobbio, i processi che creano le condizioni per lo sviluppo della pace, della democrazia e dei diritti si rinforzano a vicenda, ma è sufficiente un’inversione di tendenza in uno solo di questi processi, perché incomincino ad arretrare anche gli altri. Quando andremo a votare domenica, vediamo di pensarci. Bene.

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