“Vino amaro”, il volume che la casa editrice novarese Interlinea manda in libreria in questi giorni, è la traduzione di una memoria pubblicata in Argentina per i tipi di Sudamericana nel 2016 con il titolo di Casita robada. Casita robada è un gioco di carte, il nostro rubamazzetto, che l’autrice della memoria, Maria Josefina Cerutti, era solita fare con sua nonna; ma letteralmente significa “casa rubata”, proprio come rubata è stata la casa in cui quel gioco aveva luogo.
Il racconto prende le mosse dalla mattina del 12 gennaio 1977, quando, poco prima dell’alba, un commando paramilitare fece irruzione nella tenuta di Victorio Cerutti, il nonno di Maria, sequestrandolo insieme al genero Omar Masera Pincolini. Trascorsa qualche settimana di detenzione illegale all’Esma, la scuola di meccanica della marina militare, durante le quali vennero sottoposti a brutali torture, i due uomini vennero uccisi gettandoli in volo nelle acque del Rio de la Plata, dopo aver spossessato Victorio, che aveva allora settantacinque anni, di tutti i suoi beni, costringendolo a firmare i documenti che sancivano il passaggio delle sue proprietà a una società che dopo la fine della dittatura è risultata essere legata all’ammiraglio Massera, uno dei componenti della giunta militare che ha governato l’Argentina tra il 1976 e il 1983.
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Maria Josefina Cerutti aveva allora quindici anni e da qualche tempo viveva a Buenos Aires con la madre e i fratelli. Ma in quella proprietà di Chacras de Coria, vicino a Mendoza, era cresciuta; nella Casa Grande, che il suo bisnonno Manuel aveva acquistato, trasformandola nel simbolo di una ascesa sociale ed economica folgorante. E anche se le fortune della famiglia stavano già declinando e i fragili equilibri che ne tenevano insieme i componenti mostravano già segni di logoramento, certo fu la violenza di quella notte a porre termine all’epopea dei discendenti di Emanuele Cerutti, partito da Borgomanero, anzi da Santa Croce, nel 1895 a ventuno anni per imbarcarsi sulla Sirio in cerca di fortuna. Che aveva fatto in poco tempo, grazie alla sua intraprendenza, coltivando uva e producendo vino di qualità, in una regione plasmata dal lavoro e dal dinamismo dei nostri emigranti. Già, perché gli italiani in tempi non troppo lontani emigravano, persino dalle regioni dell’oggi opulento e irriconoscibile nord-ovest. Tanto che non è possibile comprendere compiutamente la storia dello stato unitario senza prendere in considerazione la funzione svolta dai flussi migratori almeno fino agli anni sessanta del secolo scorso. Ma di queste piccole italie sparse per il mondo, delle aspirazioni di uomini e donne costretti a recidere i legami con i propri mondi vitali, dell’idea del mondo e della società che li guidavano sappiamo molto poco e molto poco ci interessa sapere.
Ma un racconto inesorabilmente segnato dalla violenza, dal sopruso e dall’arbitrio, che aleggiano su ogni pagina, su ogni episodio, anche il più spensierato e giocoso, o irrilevante. Impossibile non sovrapporre al succedersi degli avvenimenti quell’esito terribile e agghiacciante. La sua lettura diventa così, ben oltre, credo, le intenzioni di chi lo ha scritto, una intensa meditazione sul senso della storia, sulla natura del potere e sul significato profondo della dimensione politica della convivenza, dei suoi intrecci con le esistenze di tutti noi, della fragilità degli strumenti forgiati nel corso dei secoli per dare una forma allo stato di natura hobbesiano. Con delle conclusioni a tratti disperanti: le vittime restano vittime e non ci sono azioni umane in grado di riscattarle dalla loro condizione.
“Vino Amaro. Una storia di emigrazione e dittatura”, di Maria Josefina Cerutti, Interlinea, 2019 (edizione promossa in collaborazione con l’Istituto storico Fornara di Novara)
Il libro sarà presentato giovedì 10 ottobre alle 18 alla Biblioteca Negroni.
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