La regione Piemonte ha festeggiato la pubblicazione della graduatoria del concorso per infermieri come un grande successo. Sono 1.121 i professionisti risultati idonei e, secondo l’assessore alla Sanità Federico Riboldi, pronti a essere assunti nei prossimi mesi «in base ai fabbisogni delle aziende sanitarie locali». Il messaggio è chiaro: «Questo governo regionale assume tutti i professionisti disponibili», ha dichiarato Riboldi, parlando di una netta inversione di tendenza rispetto al passato e sottolineando come, dall’inizio dei governi Cirio, il personale della sanità piemontese sia salito da 55.000 a 59.000 unità.
Un racconto rassicurante, costruito per dare l’idea di una macchina che finalmente funziona, che pianifica, che assume. Ma i numeri, come spesso accade, raccontano un’altra storia. Secondo i dati di Agenas, tra il 2019 e il 2023 il Piemonte ha perso 220 medici di medicina generale, il peggior risultato d’Italia, e 473 infermieri, quarto peggior saldo nazionale. Mentre la regione rivendica una crescita, il sistema continua a perdere pezzi e figure chiave, soprattutto sul territorio.
Il concorso di Azienda Zero, descritto dal direttore generale Adriano Leli come un esempio di «tempi certi e procedure trasparenti», rappresenta senza dubbio un passo avanti sul piano organizzativo. Ma la sostanza resta un’altra: il Piemonte soffre una carenza strutturale che non si risolve con una graduatoria, per quanto ampia. È stato lo stesso Riboldi a dichiarare che «in Piemonte mancano all’appello circa 6.000 infermieri» annunciando le operazioni di reclutamento della regione Piemonte in Albania per tamponare i vuoti nelle corsie.
Si celebra, quindi, un concorso, ma si dimentica che il problema non è solo assumere, bensì trattenere chi lavora nel sistema. Le condizioni di lavoro restano pesanti, i turni infiniti, le retribuzioni inadeguate rispetto alla responsabilità e allo stress. E così, mentre si annunciano piani e si rivendicano meriti, cresce il numero di professionisti che scelgono di andarsene, verso altre regioni o all’estero, dove la prospettiva è meno precaria e la qualità della vita professionale più dignitosa.
L’immagine di una sanità che riparte regge nella comunicazione, ma si incrina nelle corsie degli ospedali e negli ambulatori di periferia, dove la carenza di personale non è un dato statistico ma una realtà quotidiana. Ogni nuova graduatoria serve, certo, ma assomiglia sempre più a un cerotto su una ferita profonda: utile, ma lontano dal risanare. Dietro l’ottimismo istituzionale, resta la domanda più semplice e scomoda: può davvero una Regione dirsi in inversione di tendenza se continua a perdere medici e infermieri più velocemente di quanto riesca ad assumerli?















