Cosa stiamo facendo per liberare Ahmad?

«Ma quindi questo ricercatore era una spia, sì o no?». È la domanda che ho sentito più spesso dopo la pubblicazione del primo episodio del podcast Non Succede Mai Niente. Ed è probabilmente lo stesso dubbio che aleggia tra chi avrebbe dovuto occuparsi della sua scarcerazione: l’idea che un accademico accusato di essere stato una spia del governo israeliano non sia una causa per cui valga davvero la pena esporsi, soprattutto in questi ultimi anni. Altrimenti non si spiegherebbe il silenzio che circonda questa storia.

Eppure, il suo arresto e la sua condanna sono stati definiti ingiusti e arbitrari da organismi internazionali come le Nazioni Unite, il Parlamento e la Commissione europea; da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, Human Rights Watch e Front Line Defenders; dalla comunità scientifica internazionale, compresi i colleghi e le università dei paesi in cui ha lavorato; insieme a un elenco di istituzioni e personalità lungo abbastanza da riempire un quaderno.

Nel 2018, 121 Premi Nobel hanno firmato una lettera congiunta chiedendone la liberazione immediata. Tra loro Shirin Ebadi, avvocata iraniana e Premio Nobel per la Pace 2003, prima donna giudice in Iran e simbolo globale della difesa dei diritti umani; e Harold Varmus, Premio Nobel per la Medicina 1989 per le scoperte fondamentali sulla biologia del cancro. Entrambi hanno riconosciuto il valore della ricerca di Djalali e hanno difeso la libertà accademica come principio inviolabile.

Dal 2017, le università in cui Ahmadreza ha lavorato — insieme ad altre istituzioni che hanno aderito alla mobilitazione — hanno interrotto le collaborazioni con istituti accademici e autorità iraniane come forma di protesta contro il suo trattamento.

La Svezia, Paese che nel 2018 gli ha concesso la cittadinanza, ha chiesto ufficialmente e più volte la sua liberazione attraverso il governo e il Ministero degli Esteri, definendo il processo non conforme a standard minimi di giustizia. Sono state approvate mozioni parlamentari che esprimevano la stessa richiesta.
Anche il ministero degli Esteri italiano ha riconosciuto il carattere ingiusto dell’arresto e della condanna.

E non da ultimo il comune di Novara gli ha conferito la cittadinanza onoraria in segno di riconoscimento dell’ingiustizia subita, promuovendo negli anni iniziative pubbliche per non far spegnere l’attenzione.

Ma allora, se tutto questo è stato detto, scritto, riconosciuto e persino formalmente dichiarato, com’è possibile che — ora che sappiamo che Ahmad è vivo — sembri non muoversi ancora nulla per la sua liberazione? Secondo le ultime stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani dall’inizio dell’anno al 28 agosto 2025 la Repubblica rslamica dell’Iran ha eseguito almeno 841 condanne a morte in otto mesi, più di tre ogni giorno.

Secondo gli ultimi rapporti annuali di Amnesty International, l’Iran è responsabile di oltre il 50% di tutte le esecuzioni registrate nel mondo. Più della metà delle condanne a morte pubblicamente note nel pianeta avvengono in Iran.

Da quasi dieci anni Ahmad sopravvive aggrappandosi all’idea di poter riabbracciare i suoi figli, che nel frattempo sono cresciuti senza di lui, attraversando tutta l’infanzia e oggi anche l’adolescenza nell’assenza forzata del padre. Ha resistito a malattie, “incidenti” e condizioni di detenzione che in più occasioni hanno messo a rischio la sua vita.

Se non si interverrà presto, il tempo stesso — con le malattie che da anni lo tormentano e l’indifferenza che lo circonda — rischierà di scrivere la parola fine a questa storia già così dolorosa e incomprensibile.







In attesa del proseguimento della storia di Ahmad (online dal 25 novembre), puoi ascoltare il primo episodio di Non succede mai niente” sul sito de La Voce e su tutte le piattaforme di streaming audio.

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