Ottant’anni dopo la strage di Meina: l’abbraccio che rammenda la storia

La terza puntata del podcast "Non succede mai niente" racconta una delle pagine più buie della Seconda guerra mondiale sul nostro territorio

L’abbraccio avvenuto a Meina nel settembre 2023 tra Rossana Ottolenghi e la cittadina tedesca Maite Billerbeck (raccontato nel terzo episodio del podcast “Non succede mai niente”) rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di elaborazione e riconciliazione. Un gesto che nella tradizione ebraica prende il nome di Tikun Olam, «rammendare il mondo». Per comprenderne davvero il significato è necessario tornare indietro nel tempo, agli eventi che hanno intrecciato in modo tragico le storie delle loro famiglie: Rossana è figlia di Becky Behar, una delle poche sopravvissute alla strage dell’Hotel Meina; Maite è nipote di Hans Röwer, l’ufficiale delle SS, le Le Schutzstaffel, responsabile di quegli eccidi.

Quell’abbraccio affonda le sue radici nel sangue dell’autunno 1943 e in un silenzio durato sessant’anni, imposto da quello che verrà poi chiamato l’Armadio della Vergogna: un occultamento sistematico che ha negato per generazioni il diritto alla verità e alla giustizia.

L’autunno del 1943 nel territorio compreso tra il Novarese e il Verbano-Cusio-Ossola rappresenta una delle pagine più oscure dell’occupazione nazista in Italia. Una violenza metodica, diffusa, che colpì cinquantotto vittime accertate. Dopo l’8 settembre 1943, con lo Stato italiano dissolto e l’esercito allo sbando, le truppe d’élite della divisione SS Leibstandarte Adolf Hitler la guardia personale di Hitler – occuparono rapidamente il nord Italia. La scia di sangue si aprì a Novara, il 12 settembre 1943, davanti alla caserma Perrone: qui si consumò il primo omicidio: Giuseppe Ubezio, apprendista novarese di soli diciassette anni, venne ucciso da una raffica di mitra per non aver compreso un ordine urlato in tedesco, mentre osservava con curiosità il caos dell’occupazione.

Il giorno successivo, 13 settembre, la violenza assunse un carattere più sistematico a Baveno. In una giornata grigia e piovosa, un reparto delle SS si presentò alla villa di Mario Luzzato, direttore generale della Pirelli a Londra, rifugiatosi sul lago dopo l’armistizio: Luzzato venne portato via, mentre quattro soldati rimasero a sorvegliare la moglie e le figlie. Un quinto militare perquisì la casa in cerca di denaro e gioielli, consegnati sotto minaccia da Bice Ginesi, moglie di Luzzato. La sera del 15 settembre anche le tre donne vennero arrestate. La cuoca della famiglia, una donna pavese di trentacinque anni, racconterà che il mattino seguente le SS tornarono alla villa pretendendo alcolici e cibo, costringendo il personale femminile a intrattenersi con loro. Andandosene, uno dei soldati urlò con scherno: «Ora siete voi le padrone di questa villa».

Pochi giorni dopo, un camion portò via mobili, biancheria, vestiti. A Baveno quattordici persone furono derubate e caricate sui camion della morte. In paese iniziarono a circolare voci inquietanti, riprese persino dalla stampa svizzera.

La tragedia proseguì a Meina, nell’omonimo hotel, dove ventidue ebrei vennero inizialmente imprigionati. Nelle notti tra il 22 e il 23 settembre, sedici di loro furono prelevati a piccoli gruppi, uccisi e gettati nel Lago Maggiore con dei pesi legati ai corpi. Tra le vittime figurano i primi bambini ebrei uccisi dai nazisti in Italia: Jean, Blanche e Robert Fernandez Diaz, assassinati sotto gli occhi del nonno. Solo la famiglia Behar riuscì a salvarsi grazie all’intervento del console turco.

La violenza colpì anche Arona, dove scomparvero i quattro membri della famiglia Modiano, dopo essere stati derubati di ingenti beni, e Orta San Giulio, dove furono arrestati i cugini Mario e Roberto Levi, parenti di Primo Levi, nonostante fossero battezzati. A Mergozzo venne assassinato Alberto Covo insieme ai nipoti. A Novara città, il 19 settembre, furono arrestati Giacomo Diena, Amadio Jona e due zie anziane. Avviati verso Auschwitz, morirono durante il trasporto. L’ultimo atto si consumò a Intra, tra il 9 e l’11 ottobre: i quattro membri della famiglia Ovazza furono fucilati nello scantinato di una scuola e i loro corpi bruciati nella caldaia dell’edificio.

Nonostante la gravità di questi crimini, la giustizia rimase ferma per oltre sessant’anni. Tutti i fascicoli relativi agli eccidi confluirono a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare di Roma. Nel 1960, il procuratore Enrico Santacroce ne ordinò l’«archiviazione provvisoria». Più di duemila fascicoli vennero chiusi in un armadio e letteralmente girati con le ante verso il muro, per impedirne la consultazione.

La verità riemerse solo nel 1994, quando il procuratore Antonio Intelisano, indagando su Erich Priebke, ritrovò casualmente quei documenti. Il motivo di quel silenzio fu la ragion di Stato: i documenti desecretati nel 1998 rivelano che nel 1956 i ministri Gaetano Martino e Paolo Emilio Taviani concordarono di non chiedere l’estradizione dei criminali tedeschi per non compromettere la collaborazione con la Germania Ovest, pilastro della Nato nella Guerra Fredda. Come lo stesso Taviani ammise, si scelse consapevolmente la sepoltura della giustizia per fini politici considerati superiori.

Quell’abbraccio, ottant’anni dopo, è stato possibile perché affonda in un gesto più antico, compiuto quando la storia non si era ancora trasformata in memoria.

La famiglia Behar si salvò grazie all’intervento del console turco Nabil Ertoğ, musulmano, che rivendicò la protezione consolare per Becky e i suoi familiari. Pochi mesi prima, durante i bombardamenti su Milano, Alberto Behar, ebreo, aveva protetto Ertoğ e la sua famiglia, offrendo loro rifugio e mettendo a disposizione la propria casa sul lago, in una zona lontana dalle bombe. In un tempo in cui le appartenenze venivano trasformate in condanne, due uomini avevano scelto di riconoscersi semplicemente come esseri umani.

È in questo scambio silenzioso, in questa catena di salvezze reciproche, che prende forma la possibilità dell’abbraccio tra Rossana Ottolenghi e Maite Billerbeck: perché oltre ottant’anni fa, un musulmano e un ebreo, in più momenti, si salvarono la vita a vicenda.

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