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A mezzanotte di venerdì 27 marzo, sul sito ufficiale bobdylan.com è apparsa questa breve nota: «Un saluto ai miei ammiratori e sostenitori con gratitudine per tutto il vostro aiuto e la vostra lealtà nel corso degli anni. Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato un po’ di tempo fa e che potreste trovare interessante. State al sicuro, rispettate le norme e che Dio sia con voi. Bob Dylan». Di fianco un ritratto del presidente John Kennedy, con sovraimpressa la scritta in caratteri gotici: Murder Most Foul, Un delitto efferato. Premendo il sottostante bottone “listen now”, si ha accesso a una traccia audio di 16 minuti e 56 secondi, la canzone più lunga finora mai incisa da Dylan: Highlands, pubblicata su Time Out Of Mind nel 1997, dura 16 minuti e 32 secondi, Tempest, pubblicata sull’album omonimo nel 2012, 13’55”, Sad Eyed lady Of The Lowlands, 11’22”, Desolation Row, 11’18”.

Nonostante da settimane lo spazio mediatico nazionale ed internazionale sia interamente occupato dalle vicende connesse agli sviluppi dell’epidemia che si sta diffondendo nel mondo, la notizia ha da subito trovato una posizione di rilievo sulle principali testate giornalistiche, ma anche in circuiti generalmente meno attenti a quanto succede nel mondo della cultura, che si è tradotta nella pubblicazione di numerosi articoli e commenti. Diversi sono gli aspetti che hanno sollecitato questo interesse. Innanzitutto la modalità inconsueta scelta da Dylan per pubblicare la canzone, che sembra abbia colto di sorpresa anche il suo entourage. Senza alcun annuncio, senza campagne pubblicitarie e comunicati stampa, senza che, nemmeno nell’ambiente musicale, nessuno sapesse dell’esistenza della registrazione. Semplicemente, è apparsa sul sito. Non solo, ma accompagnata da un messaggio diretto di Dylan, evento rarissimo, rivolto al suo pubblico, evento ancora più raro, con parole di ringraziamento per il sostegno ricevuto negli anni, nello stile del suo amico Leonard Cohen; e qui siamo proprio nell’assolutamente imprevedibile. Con un’accorata raccomandazione finale di prendersi cura di sé, che allude chiaramente all’emergenza sanitaria che sta paralizzando l’America e il mondo intero. E questa allusione è stata posta in diretta connessione con la canzone, guidandone l’intepretazione, praticamente da tutti i commentatori, come se Dylan avesse deciso di pubblicare proprio ora quella canzone per commentare, certo nel suo modo obliquo, quello che sta succedendo adesso, accettando, dopo averlo fuggito per quasi sessant’anni, il ruolo di voce di una generazione. Interpretazione rafforzata dal fatto che la canzone è inedita, ma non nuova. Lui stesso scrive: «recorded a while back»; ma naturalmente non sappiamo né quando, né dove è stata registrata, né con quali musicisti, tanto meno quando è stata scritta. Alessandro Carrera, tra le massime autorità in materia, la data a non più di cinque anni fa, basandosi sulla voce e sul tipo di arrangiamento utilizzato. Dunque, l’enfasi posta sul fatto che si tratti del primo inedito dopo otto anni – l’ultimo album contenente nuove composizioni, Tempest, è stato pubblicato nel 2012 – sembra essere non del tutto motivata, perché ci troviamo probabilmente davanti a un outtake di un precedente ciclo compositivo, più che a una canzone che annuncia un nuovo album. D’altra parte, nel 1983 Dylan scartò una delle sue canzoni ritenute universalmente tra le più belle e significative, Blind Willie McTell, dalla track list di Infidels, per pubblicarla soltanto nel 1991 nel terzo volume delle Bootleg series, la raccolta di inediti e rarità giunta nel novembre scorso al quindicesimo volume. Ma se non è una canzone nuova, né annuncia un nuovo album, perché allora pubblicarla adesso e con queste modalità?

Il titolo è una citazione dell’Amleto. Nella quinta scena del primo atto, lo spettro del padre rivela al figlio di non essere stato morsicato da un serpente mentre dormiva in giardino, ma di essere stato vittima di un assassinio. Alla domanda stupita di Amleto: «Murther?», lo spettro risponde: «Murther most foul», assassinio vilissimo nella traduzione di Cesare Vico Lodovici. I primi quattro versi spiegano subito in modo quasi didascalico di quale assassinio narra la canzone:

‘twas a dark day in Dallas, November ’63
the day that would live on in infamy
President Kennedy was a-ridin’ high
good day to be livin’ and a good day to die

Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63,/giorno d’infamia per l’eternità/il Presidente Kennedy era sulla cresta dell’onda,/un bel giorno per vivere, un bel giorno per morire. Nel canzoniere di Dylan, il presidente Kennedy è citato una sola volta, in I Shall Be Free, la canzone che chiude The Freewheelin’, pubblicato qualche mese prima dell’attentato. In modo scanzonato e giocoso, il ventiduenne Dylan, risponde a una telefonata del presidente che gli chiede cosa fare per far crescere il paese: «my friend John, Brigitte Bardot, Anita Ekberg, Sophia Loren». Qualche mese più tardi, dopo la tragedia, Dylan scriverà un breve ciclo di dolenti poesie note come The Kennedy Poems e mai pubblicate, anche se ampiamente circolate in edizioni pirata. Dunque, come mai solo ora e in queste circostanze affrontare questo snodo della vita pubblica americana? La risposta arriva man mano che la canzone procede, alternando il racconto dell’assassinio a immagini dell’America degli anni sessanta, soprattutto riferite alla scena musicale, quando ci rendiamo conto che non del Kennedy storico si parla, ma del suo mito, e che a essere stata uccisa è l’America con la sua promessa di libertà:

I said the soul of a nation been torn away
and it’s beginning to go into a slow decay
and that it’s thirty-six hours past judgement day

Ho detto che l’anima della nazione è stata lacerata,/la sua lunga decadenza ormai è cominciata,/e che siamo a trentasei ore dopo il giorno del giudizio. La canzone potrebbe finire qui, esattamente al minuto dieci, dopo tre lunghissime strofe cantate su una linea melodica appena accennata da un pianoforte, un violino, un contrabasso e una discretissima batteria, più un poema recitato, che una vera e propria canzone, oppure, meglio, una nuova esplorazione delle infinite possibilità della forma canzone. Una meditazione densa di riferimenti letterari e musicali, con rimandi tratti dalla cultura popolare, sul succedersi delle epoche storiche e sul contenuto di violenza e sopraffazione che sembra definire l’essenza della condizione umana. Quei tre versi, invece, introducono l’ultima lunghissima strofa, di quasi sette minuti, che porta la canzone in un’altra direzione. Il narratore – ma in questo caso direi proprio Dylan stesso, senza mediazioni letterarie – chiede al famoso disc jockey Wolfman Jack di fargli ascoltare canzoni e artisti, ma anche attori e film, giocando sull’ambivalenza del significato del verbo play, che in misura diversa hanno segnato buona parte della cultura americana e inglese. Quasi ogni verso si apre con «Play» e a seguire un titolo o un artista, e l’andamento del canto trasforma il susseguirsi dei versi in una sommessa e accorata litania che evoca il potere della musica, e dell’arte in generale, di lasciare intravedere, anche solo per un momento, l’essenza della condizione umana. Una struttura testuale che è stata accostata alla lista di opere e artisti per cui vale la pena vivere con cui Woody Allen chiude Manhattan, ma che Dylan aveva già utilizzato in una poesia pubblicata nel 1964, l’Undicesimo epitaffio abbozzato. L’allora giovane Dylan evocava i suoi riferimenti musicali e concludeva con i versi:

“music, man, that’s where it’s at”
it is a religious line
outside, the chimes rung
an’ they
are still ringin’

«la musica, amico, è questa la risposta»/sono parole religiose/fuori le campane/suonavano/e stanno ancora suonando.

La trascrizione e la traduzione di Murder Most Foul utilizzate nel testo sono di Alessandro Carrera.

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Giovanni A. Cerutti

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