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Il futuro della democrazia

Nonostante con il suo tipico understatement di chiara ascendenza sabauda, Norberto Bobbio lo abbia definito nell’introduzione una raccolta di testi di filosofia popolare, a quasi trentasei anni dalla sua pubblicazione si può ormai annoverare Il futuro della democrazia tra i classici del pensiero politico. Come ha finemente notato Sheldon Wolin in Politics and Vision, il suo monumentale lavoro dedicato alla storia del pensiero politico occidentale, il tratto distintivo dei libri destinati a diventare classici è quello di tornare a riflettere sui fondamenti della politica, in conseguenza di rivolgimenti storici che mettono in crisi i paradigmi interpretativi dominanti. Non dando più niente per scontato, vengono sottoposti a nuove indagini i concetti considerati più ovvi e risaputi, riconsiderando alla luce delle nuove circostanze l’essenza stessa dell’obbligo politico. E, aggiungiamo, i libri che meglio degli altri riescono a definire le nuove categorie interpretative, tranne in rari casi, non utilizzano un linguaggio eccessivamente specialistico, rivolto al pubblico accademico, ma hanno quale orizzonte di riferimento un pubblico più vasto. Si può dire che lo sforzo di chiarezza richiesto per raggiungere questo tipo di pubblico favorisca la profondità dell’analisi. Solo chi padroneggia a fondo i concetti è in grado di spiegarli in modo semplice e lineare, senza troppi contorcimenti.

Il libro di Bobbio raccoglie sette saggi scritti tra il 1978 e il 1984, cui dalla seconda edizione del 1991 venne aggiunto un ottavo saggio dedicato alla democrazia nell’arena internazionale, un tornante storico che a posteriori possiamo a buon diritto considerare l’inizio della crisi degli assetti del secondo dopoguerra, non solo in Italia, dove tale crisi ebbe aspetti drammatici, ma in tutto il mondo occidentale, anche se al momento della sua pubblicazione molti erano convinti che la crisi fosse ormai alle spalle e che si stessa aprendo un nuovo periodo di stabilità. Comprendendo, invece, la natura epocale della crisi in tutta la sua profondità, Bobbio si comporta esattamente come quegli autori dalla cui lunga frequentazione aveva evidentemente tratto largo profitto, sottoponendo ad un’analisi serrata il concetto di democrazia, cercando di definirne i reali contorni nelle società contemporanee. Quali sono le caratteristiche dei regimi politici europei che oggi chiamiamo democrazia? Queste caratteristiche sono riconosciute in egual misura da tutti gli attori politici e sociali che costituiscono tali regimi? Dunque un intento che in prima battuta non è tanto di natura normativa, dire come la democrazia dovrebbe essere, quanto di natura descrittiva, dire come la democrazia è. Non definire un modello teorico, ma indagare come sono fatti i regimi politici che per consenso quasi unanime vengono definiti democrazie.

Il saggio di gran lunga più importante è il primo, che dà il titolo al libro e che è anche l’ultimo a essere stato scritto. Al suo interno si trova una delle due versioni della definizione della sua giustamente celebre teoria procedurale della democrazia – l’altra è contenuta nella voce Democrazia del Dizionario di politica da lui diretto con Nicola Matteucci – e che si può riassumere nella formula della democrazia contemporanea come insieme di regole che permettono la convivenza tra gruppi e individui con concezioni diverse del bene. Una teoria, però, che prende forma dall’osservazione della realtà e dalla ricostruzione dei processi storici che hanno determinato l’affermazione dei regimi liberaldemocratici in Europa. Come dice esplicitamente al termine dell’introduzione della prima edizione, all’origine del libro c’è la volontà di prendere parte a favore di questo tipo di regimi in netta contrapposizione con tutte quelle correnti politiche e culturali che si ponevano l’obiettivo di smantellarli, in vista dell’instaurazione di sistemi pensati come perfetti. Nella sua argomentazione Bobbio non si limita a difendere le ragioni della democrazia come procedura, difesa – il sottotitolo del volume è Una difesa delle regole del gioco – tutta basata su un’analisi realistica dei processi politici, ma, sulle stesse basi, argomenta a favore della sua capacità di gestire i conflitti e di assicurare la convivenza, definendone anche i fondamenti etici.

Il saggio continua prendendo in esame le promesse non mantenute della democrazia, quali, tra le altre, l’emancipazione dell’individuo dai condizionamenti delle formazioni collettive, la capacità della rappresentanza politica di prevalere sulla rappresentanza degli interessi, il superamento del potere oligarchico e l’affermazione del principio di trasparenza nella gestione degli affari pubblici. Bobbio osserva in modo penetrante che queste promesse non sono state mantenute perché non potevano essere mantenute, non solo perché il progetto politico democratico era stato pensato in una società molto meno complessa di quella attuale, ma anche a causa della natura dei mutamenti sociali ed economici che sono intervenuti in questo lasso di tempo. Un’altra chiara indicazione a sottoporre qualsiasi teoria al vaglio del principio di realtà.

Molti sono gli aspetti presi in considerazione dal filosofo torinese, il cui insieme conferisce al libro la sua forza ancora intatta. Molto probabilmente, però, il cuore della riflessione si trova in un altro passo del primo saggio, in cui Bobbio analizza uno degli argomenti cardine del pensiero democratico, la capacità della partecipazione dei cittadini alla vita politica di promuovere il senso di appartenenza collettiva. Esercitando i diritti che le costituzioni democratiche assicurano loro, i cittadini diventano consapevoli che il legittimo conseguimento dei propri interessi ha come presupposto la salvaguardia e la permanenza del sistema di regole comuni, ragion per cui lo spirito democratico consiste soprattutto nella cura e nella promozione della cornice istituzionale che rende possibile la vita associata. Un atto diventa propriamente politico soltanto quando incorpora questa consapevolezza, che è in ultima analisi la consapevolezza che anche le libertà individuali dipendono dal rispetto del vincolo di appartenenza comune. Già nel 1984 Bobbio concludeva la sua analisi con la sconsolata constatazione che mai previsione è stata così disattesa. E oggi? Possiamo dire di esserci lasciati definitivamente alle spalle l’apatia e il disinteresse per la dimensione collettiva che tanto lo impensierivano circa il futuro della democrazia? Già allora circolavano interpretazioni benevole di questa apatia, considerata un giustificato rifiuto delle vicende del palazzo. Ma il punto è proprio questo: piazza e palazzo sono categorie estranee al pensiero democratico, che rispondono entrambe all’idea che non esistono interessi generali da considerare nei propri corsi d’azione. Entrambe.

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Giovanni A. Cerutti

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