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Sull’orlo dell’abisso. Riflessioni sul Giorno della Memoria

In occasione della ricorrenza di oggi, 27 gennaio

Quando Primo Levi morì, nell’articolo scritto in memoria dell’amico, Norberto Bobbio notò come l’opera dello scrittore torinese sia attraversata da un filo permanente la cui essenza è la volontà di «condurci sull’orlo di quell’abisso, di cui nessuno è ancora riuscito a toccare il fondo, per aiutarci a guardarvi dentro». Non soltanto per dar conto dell’offesa e dell’umiliazione patita da lui e dai suoi compagni di prigionia, ma per cercare di comprendere i meccanismi storici e sociali che hanno reso possibile l’orrore dei campi. E di definire i tratti costitutivi di quell’umanità violata: persino La chiave a stella conteneva nel suo nucleo più riposto l’intenzione di ribaltare l’osceno motto che campeggiava all’ingresso del campo di Auschwitz “arbeit macht frei”.

Trentacinque anni dopo, quell’abisso continua a interrogarci. Più viene scandagliato e più riemergono circostanze e persone, particolari e punti di vista inediti, a testimonianza della profondità della ferita aperta dagli eventi che hanno segnato la storia europea degli anni trenta e quaranta. Dopo l’occupazione tedesca di larga parte del territorio del nostro continente, infatti, tutte le società europee sono state costrette a confrontarsi con l’immane tragedia dello sterminio del popolo ebraico. E tutte si sono frantumate: indifferenti, forse la maggior parte, fiancheggiatori attivi e passivi della deportazione, più o meno ignari – o forse solo desiderosi di non porsi troppe domande – del destino delle persone che contribuivano a consegnare ai carnefici, eroi della vita quotidiana determinati a non tradire il legame che fonda la convivenza umana. Saltati uno dopo l’altro gli stati e disarticolate nella maggior parte dei casi le società, ciascun europeo si è trovato solo con la propria struttura morale, con i valori che era stato capace di costruirsi.

Dobbiamo essere grati a coloro i quali seppero resistere al conformismo e al quieto vivere ed esporsi senza calcoli alle conseguenze dei loro gesti, mettendo in salvo, insieme alle persone, l’idea stessa di civiltà umana. Ma dobbiamo essere altresì consapevoli che quella storia ci indica anche che soltanto solide istituzioni democratiche, eredi e continuatrici del millenario sforzo dell’umanità di contenere e superare la distruttività insita nelle relazioni tra gruppi e individui, ci mettono al riparo dall’abisso, costruendo società ben ordinate in grado di dar vita a un sistema internazionale orientato alla salvaguardia della pace. Perché soltanto all’interno di solide istituzioni democratiche si possono generare le solidarietà che consentono ai singoli di fronteggiare con successo le sfide più estreme, quelle in grado di insidiare l’integrità di ciascuno di noi, se lasciato solo a se stesso.

Ciononostante l’essenza di quell’abisso continua a sfuggirci. Resta uno scarto che non riusciamo ad afferrare fino in fondo, così ben restituito dal termine Shoah, che si è rapidamente affermato in quasi tutte le lingue non tanto per il suo significato, ma per la dissonanza fonetica, evocativa di una dissonanza cognitiva. E forse è giusto così: questa incommensurabilità è il segno della difficoltà di ricondurre all’umano un evento tanto inaudito. E purtuttavia sono stati uomini a concepire e portare a termine quella che lo storico americano Raul Hilberg ha definito – concependo l’espressione che di gran lunga aderisce alla realtà più di ogni altra – la distruzione degli ebrei d’Europa, e uomini appartenenti a una nazione che ha contribuito in modo decisivo – Bach, Goethe, Kant – alla fioritura della cultura europea. Questa consapevolezza non può non continuare a segnare irrimediabilmente il nostro futuro, non possiamo permetterci di allontanarci infastiditi dall’eco di quegli avvenimenti: «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire».

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Giovanni A. Cerutti

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