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Sabato Santo del 1300, verso le 11 di mattina. Ottavo cerchio, settima bolgia. Dei serpenti strisciano continuamente tra i dannati indifesi, li mordono o ne tengono avvinte le braccia e talvolta si fondono con loro in una raccapricciante metamorfosi uomo – rettile.

Dante ci avvisa che se in vita usiamo le mani con tanta destrezza per rubare le cose altrui, all’inferno le avremo legate dalle serpi; saremo derubati della nostra essenza umana, ci sarà tolto il nostro aspetto e ci trasformeremo nell’animale tradizionalmente associato al demonio, scelto per indicare la natura subdola del peccato e l’astuzia ingannatrice dei ladri.

Dante accenna ad alcuni nomi, per noi sconosciuti, anche se i casati di appartenenza sono tra i più noti di Firenze: Donati, Cavalcanti, Brunelleschi; qui predomina la sua preoccupazione civile, la necessità di esprimere la disumanità dei ladri che vuole denunciare.

Il poeta latino Lucano è la fonte che suggerisce una ricca nomenclatura di rettili: chelidri, iàculi, farèe, cencri e anfesibene, ma il senso del meraviglioso in Dante, alimentato dai bestiari medievali, supera di gran lunga il modello e la sua fantasia inventa variazioni di supplizi.

Per il ladro sacrilego Vanni Fucci è pronto un serpente che lo morde e lo incenerisce in un istante, per poi riprendere la propria forma corporea, risorgendo dalle sue ceneri come l’araba Fenice.

Dopo l’apparizione del centauro Caco ricoperto di rettili e con un drago sulle spalle, condannato tra i ladri per un furto fraudolento ai danni di Ercole, che lo aveva per questo ucciso con la sua poderosa clava, il poeta sente il bisogno di fare appello ai lettori per prepararli alle straordinarie metamorfosi che seguiranno: “Se tu se’ or, lettor, a creder lento / ciò ch‘io dirò, non sarà maraviglia, / chè io che ‘l vidi, a pena il mi consento.”

Un rettile a sei zampe, “un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe”, si avvinghia attorno ad un ladro: con le zampe di mezzo gli afferra l’addome, con quelle davanti gli artiglia le braccia, poi gli azzanna una guancia; le zampe posteriori allacciano le cosce tra cui infila la coda fin sulle natiche, avvinta come l’edera: “Ellera abbarbicata mai non fue / ad alber sì, come l’orribil fiera/ per l’altrui membra avviticchiò le sue”.

Poi i due esseri si incollano e si fondono insieme come cera riscaldata, nessuno dei due sembra più quello di prima: “Ogne primaio aspetto ivi era casso:/ due e nessun l’imagine perversa / parea”.

Dante è attonito e smarrito, sa che sta per descrivere una metamorfosi ancora più sconvolgente. Prima, con una punta di orgoglio, afferma che nemmeno Ovidio, maestro nei racconti di trasformazione e sua fonte prediletta, può arrivare a tanto, quando racconta di Cadmo mutato in serpente o Aretusa in sorgente; poi teme che la sua penna, per la stranezza dell’argomento, sia troppo approssimativa: “Qui mi scusi la novità se fior la penna abborra”.

La variazione sul tema, un pezzo di bravura nella precisione anatomica, è terrificante.

Un serpente trafigge un peccatore nell’ombelico: al rettile si biforca la coda, all’umano si uniscono i piedi; gambe e cosce si incollano, le braccia rientrano nelle ascelle; le zampe del rettile diventano il membro virile, la trasformazione dei volti è una confusione di escrescenze carnose che diventano labbra, guance, orecchie che rientrano nella testa. Tragica la scena, marcata dallo sguardo ipnotico che continuamente si scambiano i due. Entrambi ad un certo punto emettono fumo e mutano colore, uno si alza in piedi mentre l’altro cade lungo disteso, all’uno la lingua si fende all’altro si rimargina.

L’anima fatta bestia infine fugge sibilando, la bestia diventata uomo le sputa dietro. E’ l’ultimo sguardo di Dante sul gruppo di dannati della settima bolgia, che lui chiama in modo spregevole “zavorra”, materia di scarto.

Sipario.

[Immagine: miniatura dal manoscritto di Holkham 514, XIV secolo. Bodleian Library, Oxford University]

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Claudia Cominoli

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